mercoledì 20 marzo 2013

Ritorno a Dar es-Salaam.







Rimane ancora una pratica da espletare a Selous. Un giro a piedi nella foresta per sentire, liberi dal mezzo meccanico, il respiro vicino di questa terra. Detto così suona un po' pomposo, ma in effetti, il bozzolo psicologico della scatoletta di latta del fuoristrada, ti dà una sensazione protettiva che comunque rappresenta una barriera estraniante, ti mantiene in una posizione di osservatore passivo piuttosto che attore partecipante ad una rappresentazione di vita vera. Camminare tra gli alberi, nel fitto dei tronchi e non capire più dopo pochi metri e qualche giravolta, dove sia rimasto il punto di partenza e sentirti irrimediabilmente perduto, ti rende parte di un mondo che rischierebbe di rimanere comunque estraneo  e lontano, occasione di immagini da catturare, di impressioni di primo impatto da razziare e portare a casa come collanine e paccottiglie da perdere in un cassetto  minore della mente. Alle sei è ancora buio pesto ed è disagevole lasciare la mia tana notturna senza mettere il piede in fallo e precipitare dalla scaletta dai gradini marci e malfermi. Gli ippopotami hanno già comunque lasciato il bosco dopo la rumorosa strippata notturna e sono ormai a mollo nell'acqua, quindi ci si può inoltrare lungo il sentiero che conduce all'area di ritrovo centrale del campo, con una certa tranquillità. Kassim, il barcaiolo di ieri, indispensabile tuttofare che aveva anche servito la cena, probabilmente stanco per i mille doveri e le molte incombenze, ronfa ancora della quarta e compare solamente dopo un po' con gli occhi assonnati, strascicando i piedi in due ciabattoni slabbrati. 

Ci si inoltra tra gli alberi spostando i rami più bassi, nel chiaroscuro dell'alba. A lato, tra i cespugli, senti rumori leggeri, fruscii sospetti, fogliame strusciato. Animali non se ne vedono ovviamente, già la nostra presenza, l'odore e il fracasso del nostro passaggio, sono deterrenza sufficiente a far fuggire lontano ogni forma di vita animale. Però ne scopri i segni ad ogni angolo. Ecco gli zoccoli di un gruppo di gazzelle, qua a terra sul fondo di un corridoio aperto nel verde, le tracce del passaggio di un'orda di ippopotami al pascolo solo un paio di ore fa, laggiù, le enormi fatte di qualche elefante isolato che ha provveduto a scortecciare un grande tronco di baobab. In una radura più isolata trovi ossa sparse, una grande mandibola calcinata, decine di costole, un bacino spezzato del pachiderma che è venuto a morire qui. Kassim ti racconta le storie della foresta, mostrandotene i segni al passaggio, ogni orma, ogni ramo spezzato ne è occasione, assieme agli alberi giganti che ti circondano oppressivi. Un grande mogano isolato stende radici colossali sul terreno quasi nudo, piccoli tronchi di ebano scuri, dei quali non indovini subito la durezza ed il pregio e poi radici, foglie dai profumi curiosi, erbe medicamentose e tutto quello che lo scrigno della foresta nasconde e ti rivela solo camminandoci dentro. Poi viene l'ora di partire. 

Caricare le valige ed i sacchi sull'auto che ci è stata compagna per quasi un mese, per un ultimo balzo fino a Dar. Ancora pista rossa e polverosa, ancora capanne nel bosco degli uomini della costa, di cui Ernest, sempre attento e preciso, ti racconta di superstizioni e povertà di vita, ruolo di pescatori che si accontentano del poco che regala il mare e che disdegnano l'agricoltura, forse troppo pigri, forse troppo legati a tradizioni antiche, che dietro la capanna hanno sempre un piccolo simulacro in cui si crede stiano gli spiriti guardiani del villaggio, magari col telefonino in mano, ma pronti a bere pozioni magiche per liberarsi dal malocchio, sempre in agguato. Un mondo troppo sconvolto da bruschi, anche se inevitabili cambiamenti. Un'ultima strada in costruzione che ti costringe a tortuose deviazioni,  Il solito cappello di paglia su una testa di cinese che controlla un gruppo di figure sudate che stendono l'asfalto coi badili. Arriviamo sempre troppo presto e in un attimo sei nel caos di Dar, il traffico insopportabile, le code di ore per percorrere pochi metri, le baracche di lamiera della periferia, i venditori che passano da un finestrino all'altro, arachidi, frutta, giornali, libri, vestiti, triangoli, attaccapanni, un mondo brulicante di vitalità esplosiva. Eccoci al porto, una folla di gente con valige e pacchi. 

Una confusione ossessiva e rumorosa, che ti innervosisce e spesso spaventa. Abbraccio Ernest col cuore. Arrivi come turista, te ne vai come amico, recita lo slogan della sua compagnia. Certo lo dirà a tutti quelli che partono, proporzionalmente alla mancia, va bene; ma vi prego, non siate crudeli, lasciatemi immaginare che ci sia una commozione vera in questo lasciarsi, per tutto quello che ci ha dato, per il sorriso ironico con cui ti raccontava le cose, per l'emozione che gli leggevi negli occhi davanti a spettacoli che lui aveva pur già visto mille volte, per le grandi risate quando gli raccontavi barzellette. Da domani sarà di nuovo ad Arusha; lo aspetta ancora un gruppetto di ospiti, l'ultimo della stagione, chissà se simpatici o supponenti, pieni di prepotente maleducazione o invece di curiosità interessata verso il suo mondo, pretenziosi o disponibili, chissà. Se lo chiede ogni volta, ma solo alla fine tirerà le sue somme, aggiungendo anche lui una ulteriore esperienza di vita; poi sarà la stagione delle piogge e lui andrà a ritirarsi nel suo villaggio remoto, sulle rive del grande lago Tanganica, a guardare il blu scuro delle sue acque, sognando il pozzo nuovo da fare. Ancora una stretta di mano trattenuta a lungo, poi la sirena del traghetto chiama ad una nuova esperienza. E' davvero ora di andare.




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In volo.

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