lunedì 18 agosto 2014

Recensione: Kadaré - I tamburi della pioggia

Ed eccoci al secondo ed ultimo purtroppo, suggerimento di lettura, diciamo così propedeutica al vostro futuro viaggio in Albania, ma di certo leggibile con gusto anche se si prevede di starsene a casa. Ancora Kadaré, il poeta romanziere albanese, che nella sua opera canta continuamente la sua terra. Un'altra città di pietra da raccontare, questa volta andando più indietro nel tempo. Ma qui, nessuna struggente poesia di mura che raccontano storie personali; risuonano invece suoni di guerra, clangore d'armi e grida di uomini. Questo I tamburi della pioggia è, come primo impatto, un romanzo storico che racconta l'inutile assedio che l'esercito ottomano portò nel XV secolo alla roccaforte di Kruja, allora  caposaldo e capitale albanese, in cui si rifugiò l'esercito rimasto al comando Skanderberg, il leggendario condottiero, per resistere all'avanzata turca che stava dilagando in tutti i Balcani. Naturalmente la parte squisitamente storica dell'opera è soltanto il pretesto per raccontare, da un lato l'epica della resistenza di un popolo all'invasore, sottoponendosi così all'inevitabile critica di voler esaltare l'isolazionismo del regime (il libro è del '70) e una propensione al nazionalismo che ha poi dato prove davvero funeste negli anni successivi in tutta la penisola balcanica, dall'altro gli aspetti della guerra, dai suoi orrori, al dipanarsi delle vicende personali. 

Così da un lato la glorificazione del popolo resistente, visto sempre nel suo insieme senza dettaglio di personalità specifiche, mentre dall'altro la contrapposizione dell'esercito invasore, di certo il più potente e organizzato dell'epoca, descritto minutamente nei suoi personaggi, dai comandanti, al poeta, alle concubine al seguito e a tutta quella umanità che all'epoca faceva da contraltare all'arte della guerra. E' il romanzo della continua contrapposizione, dell'eroe più debole e disposto a tutto per difendere caparbiamente un ideale (oltre ovviamente la vita) all'organizzazione moderna ed efficiente, ricca, potente, tra l'altro anche multietnica e meritocratica e forse per questo alla fine incapace di battere la forza dell'esaltazione che spesso ha il più misero contro il potente. La descrizione degli assalti, delle battaglie e della vita del campo sono magnifiche e cariche di poesia. Su tutto grava il caldo torrido dell'estate che sembra finire troppo in fretta senza che l'assedio abbia successo e l'ineluttabilità dell'arrivo dell'autunno con i suoi tamburi della pioggia che sanciranno l'inutilità dell'operazione e la sconfitta a cui il comandante in capo dell'esercito ottomano dovrà rendere conto. Anche questo è un libro che andrebbe assaporato tra gli ulivi che circondano la Kruja di oggi, distesi tra l'erba a guardare quelle mura dal basso, con il castello invitto che le domina, spiando sentieri e dossi dove si nascondevano i soldati e radure dove era acquartierato l'esercito. La pietra testimone dei fatti è ancora lì e il suo cantore la sa raccontare sommessamente come se volesse prendersi pause e lunghi respiri tra un colpo e l'altro del grande cannone.

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