venerdì 28 settembre 2012

Pesche acerbe.

Arrancavo su una bicicletta rossa da ragazzino sulle strade davvero poco trafficate di una Valle San Bartolomeo di cinquanta e più anni fa. Neanche ancora sognavo la Vespa che non avrei mai avuto. Non si portavano soldi in tasca allora. Se c'era una specifica richiesta la mamma mi dava le venti lire per il cono di gelato quando alle due passava il carrettino e finiva lì. Ma in fondo nessuno della banda di under ten sentiva la necessità di averne. Girava così il mondo, né migliore né peggiore di oggi, come le ruote della bicicletta con la cartolina fissata con la molletta che scoppiettava tra i raggi per simulare il rumore del motorino, ma solo per il tuo piacere. In quel periodo non si pensava ancora alle ragazze, o per lo meno questo era un problema vago e dai contorni poco definiti, che era messo un po' in disparte per essere ripreso, come frutto irraggiungibile, qualche anno dopo. Un mistero da chiarire col tempo, al momento gli interessi erano altri. Andare  a correre sui carrettini alla villa dell'amico ricco o pedalare fino al fiume a fare il bagno in mutande nell'afa del pomeriggio, tra moscerini e cicale, quelli erano i desideri primari.Qualche volta, altre stradine un po' più lontane, sterrati faticosi su cui la biciclettina faticava ad arrampicarsi, fino alla cima della collina, in alto sulla strada del Dazio, facendo il giro largo sul crinale da cui dominavi la valle. Ma non mi è rimasto niente di quel paesaggio delicato, forse bello, di una linea marcata che forse oggi avrei apprezzato e che probabilmente a quella età, poco avvezzo al concetto di bellezza astratta, lasciava indifferenti. Quello che interessava invece era un grande frutteto di pesche che scendeva dalla cima verso il basso, una coltura a cui la zona non era avvezza e che destava curiosità. Quelle pesche mi apparivano enormi e bellissime, così appese ai bassi alberelli che popolavano il campo in un ordinato quinconce. 

Erano tonde ed enormi, con una vaga sfumatura rosata da un lato, verde oro dall'altro e una peluria delicata a ricoprirle che ti risvegliava sensi ancora sopiti. Mollavamo le biciclette nel fosso e poi come indegni razziatori cominciavamo a staccare un paio di frutti, scelti tra i più grossi e succosi dagli alberi più vicini. Poi andavamo a rosicchiarceli un po' più in là, nascosti in una ripa, rintanati come i ladri che si spartiscono il bottino, evidentemente consci di fare una cosa mal fatta, del consumare un furto il cui senso di colpa era ampiamente superato ed annullato dalla soddisfazione di quel rodere rotondità, sicuramente ancora acerbe e dure come pietre. Era il godere della mala azione più che un razionale ottenimento di beneficio pratico. Né ci sfiorava rimorso di reato commesso, come se inconsci che il portar via qualcosa, là dove ce n'era tanto, potesse essere considerato come vietato. Non rientrava neanche nella confessione dal prete. Poi una volta, arrivato a casa, scoppiò il bottiglione. Non si seppe mai quello che era successo davvero, ma me ne presi un fracco, in sintonia credo con quanto accadde nelle altre case dei miei complici. Sembrava solo che fossimo stati individuati dal proprietario del pescheto e minacciati di denunce varie. La parola carabinieri mi rimbombò nelle orecchie per tutta la sera tra uno sganassone e l'altro, che arrivavano da tutte le due parti in causa, anzi mi sembra che mia mamma usasse una ciabatta, per non farsi male le mani. Insomma, ogni tempo ha i suoi modi, quelli erano, allora i sistemi per insegnare a distinguere il male dal bene. Siccome mi ricordo ancora perfettamente quella notte di tregenda e che per parecchi giorni a seguire, nessuno della banda uscì più di casa, evidentemente per il terrore di essere rastrellato dalle forze dell'ordine in agguato, credo che l'avvenimento sia stato comunque di una qualche utilità nella mia crescita successiva. Può anche darsi che i Fiorito e compagni, non abbiano mai rubato pesche da ragazzini. Chi può dirlo?


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giovedì 27 settembre 2012

Considerazioni sul Tai Ji Quan 10/11: Yun shou.

Dopo la pausa estiva arriviamo al decimo (e undicesimo) movimento della forma 24 yang. Ancora una volta si utilizza per denominarla una similitudine poetica: yun shou - 云手  - Mano di nuvola. Già avevamo visto il secondo carattere (mano) che stilizza il palmo con le cinque dita, mentre aggiungo solo che l'ideogramma di nuvola, significa anche Dire, in quanto le parole che escono dalla bocca vengono immaginate come una nuvoletta. Ma al di là delle considerazioni linguistiche si può osservare che la definizione di questo movimento che in questo caso viene ripetuto per tre volte consecutive,  descrive la rotazione incrociata delle braccia che simulano il vorticoso rotolare delle nubi nel cielo durante il temporale. Partendo dalla precedente posizione di Dan Bien (una frustata), la direzione del movimento prosegue con tre passi laterali consecutivi verso sinistra. Mantenendo sempre le ginocchia ben piegate, da Gong bu (passo arcuato a sx) infatti si porta il piede sx parallelo, spostando il peso a dx. A questo punto si porta il piede dx alla distanza di circa 20 cm del sx (peso sul sx) quindi si allunga il sx (peso sul dx) e così alternativamente per tre volte, mantenendo i piedi paralleli e mantenendo l'altezza del bacino sempre uguale. Il movimento delle braccia è coordinato a questa traslazione laterale. Quindi mentre la punta del piede sx ruotano da gong bu di 90° in avanti, la mano dx cambia la forma da uncino a palma aperta in avanti, dita verso l'alto, la sx si rivolge verso il basso. Incomincia la rotazione della mano sx che compie un semicerchio in basso fino ad arrivare all'anca dx (quando il peso è tutto sulla gamba dx). 

A questo punto mentre la gamba sx si allunga per posizionare il piede il più lontano possibile, la mano sx inizia il semicerchio verso l'alto fino a portarsi nella posizione iniziale, mentre la mano dx contemporaneamente esegue il semicerchio in basso fino all'anca sx, mentre i piedi saranno affiancati e paralleli a circa 20 cm. Lo sguardo segue sempre il palmo aperto della mano che passa alto davanti agli occhi, alternativamente prima la sx poi la dx. Il torso in posizione perfettamente verticale compie una rotazione alternata di 90 ° rivolgendosi prima verso la mano che cambia forma da uncino ad aperta, poi seguendo la mano che passa davanti agli occhi fino a quando questa si abbassa per iniziare il semicerchio inferiore. Il movimento equivale ad un ciclo respiratorio con l'inspirazione che inizia quando parte la rotazione bassa della sx e l'espirazione durante la sua rotazione alta. Questo movimento circolare alternato delle braccia, accoppiato al passo laterale si ripete per tre volte. Al termine della terza rotazione la mano dx riprende la posizione ad uncino e la sx esegue la ripetizione del movimento 9 - dan bien, terminando col passo gong bu verso sx. L'errore più comune nell'esecuzione è quello di sollevare ed abbassare il centro di gravità del bacino durante la traslazione laterale, che deve invece rimanere sempre alla stessa altezza. 

La tecnica, apparentemente facile, è in realtà molto complessa a causa della coordinazione che devono avere rotazione incrociata delle braccia, posizione dei palmi, spostamento delle gambe e rotazione del busto. Tutte queste parti del corpo devono essere allo stesso tempo estese ma non estese, contratte e decontratte, soprattutto, ed è il punto più difficile da comprendere e si ottiene solo dopo molta pratica, il movimento non deve partire dalle braccia, ma dal centro di gravità sotto l'addome che "tira" tutto il resto del corpo fino alle sue estremità. (a questo scopo sono estremamente utili i cosiddetti esercizi del "bozzolo di seta" che insegnano a muovere le braccia come estensioni del tan tien centrale, posto qualche cm sotto l'ombelico). Il significato marziale del movimento consiste in una serie di parate a colpi alti e bassi alternati. Il beneficio psicofisico di questo movimento si incentra in particolar modo sul miglioramento della coordinazione dei movimenti di tutte la parti del corpo. L'energia psichica si diffonde in tutte le estremità   influenzando processi di calma e rilassamento concentrato, che generano serenità e benessere. Sembra che abbia effetti anche sulla perdita di peso (e non dite subito che faccio male il movimento e che dovrei esercitarmi di più!).




Refoli spiranti da: Fundamental of Tai Ji Quan - Wen Shan Huang - S.Sky Book Co - Honk Kong -1973
Moiraghi : Tai Ji Quan - geo S.p.A. 1995
Kung Fu and Tai Ji  Bruce Tegner -Bantam book - USA - 1968
www.taiji.de
Huard - Wong . Tecniche del corpo - Mondadori Ed. 1971

mercoledì 26 settembre 2012

Recensioni: Pearl Buck - Uomini di Dio.

Con questo commento si chiude il ciclo delle letture estive. Come avrete notato, ho avuto una scorta di opere della Buck e altre ne ho ancora in attesa. Ovviamente mi interessano soprattutto per il racconto di luoghi, periodi e descrizione di cultura cinese, che se pur viste con ottica occidentale, sono raccontate da chi le ha viste e subite direttamente, e proprio per questo mi accalappiano fortemente anche se lo stile e il racconto possa apparire oggi un po' superato e troppo incline alla sdolcinatura. Ma quantomeno la Buck sa scrivere e già si può dire che non sia cosa da poco. Questo Uomini di Dio, pubblicato nel '51, appartiene al cosiddetto periodo americano, ma larga parte attiene comunque alla Cina lontana che rimane comunque sempre sullo sfondo a incombere e condizionare la storia. C'è come sempre molto di autobiografico, a partire dall'ambiente dei missionari delle varie confessioni cristiane a cui la Buck apparteneva, fino allo stesso protagonista che si può identificare in parte con il secondo marito dell'autrice. Si può notare infatti che pur essendo questo un personaggio abbastanza negativo, riceve dall'autrice un fondo di comprensione malcelata, come da parte di chi, pur riconoscendone i difetti si sente in qualche modo legato da affetti e comunanza di intenti. La storia, che pure prende origine e ripercorre la vita di due famiglie di missionari in Cina, si svolge quasi per intero negli Stati Uniti della grande crisi, ripercorrendone le problematiche e i relativi sconvolgimenti sociali. Qui la Buck appare più manierista e alla ricerca di un filone nuovo da percorrere dopo i grandi successi cinesi che l'hanno resa famosa, spinta forse in ciò appunto da questo secondo marito editore, piuttosto pratico e alla ricerca di riscontri commerciali, quindi, a mio parere, sembra un po' aver perso la poesia e l'innocenza delle prime e più famose opere. Qui si riscontrano anche toni più decisamente politici e la presa di posizione decisa contro il maccartismo che in quegli anni dominava negli USA. Direi che comunque vale la pena di perderci qualche ora.


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martedì 25 settembre 2012

Cronache di Surakhis 51: Civiltà perdute.

La nave spaziale della Società di Esplorazione Xenointerstellare rimase in orbita per molti giorni prima di decidere di scendere sul pianeta. Paularius, che sovvenzionava l'associazione segretamente, nella speranza di orientare le ricerche al ritrovamento di antiche civiltà sessuocentriche, aveva ottenuto di partecipare a quella promettente spedizione, come responsabile generale organizzativo. Da quella parte periferica della galassia arrivavano notizie frammentarie, leggende tramandate di bocca in bocca, durante gli stage di sesso orale che le sacerdotesse del Sacro Tempio facevano un paio di volte all'anno, per migliorare la tecnica di preghiera, che raccontavano di un pianeta perduto e autodistruttosi a causa di qualche comportamento dei suoi stessi abitanti. La nave si posò in una zona selvaggia, al centro di una lunga penisola in un mare maleodorante e cosparso di scorie antiche che l'ecosistema non era ancora riuscito a digerire. L'aria benché fetida era ancora respirabile e il gruppo di studiosi scese subito per cominciare le ricerche. Paularius rimase prudenzialmente sulla nave, in compagnia di un paio di proporzionate assistenti, che gli alleviavano i momenti di noia. Fuori, a perdita d'occhio, rovine di costruzioni, un tempo sicuramente imponenti che avevano rappresentato di certo un punto di potere o di guida morale. 

Grandi cupole crollate e corrose dal tempo, palazzi smembrati forse sedi di consigli, enormi emicicli semidistrutti. Il gruppo dei ricercatori, tutta gente a progetto che al rientro su Surakhis sarebbe stata messa in Cassa Integrazione, essendo finiti i fondi con cui Paularius, capo dell'iniziativa, era stato finanziato e che li aveva investiti tutti in una splendida ed elegantissima festa, in cui le sacerdotesse di ritorno dallo stage avevano davvero divertito tutti, anche quei cancheri dell'opposizione che avevano brigato per farsi invitare e poi criticare come al solito, era risalito sulla nave dopo aver raccolto tutti i campioni necessari. Era stata davvero una buona idea quella di rifinanziare la Cassa, un ammortizzatore sociale davvero utile, anche se costoso per la società. Infatti quei pochi organi ancora funzionanti e fluidi vitali che potevano essere estratti, dopo che i lavoratori, terminati gli stages formativi, venivano sepolti direttamente nelle costose casse integratrici per essere dissolti, risultavano  comunque costosi . Ma di fronte al benessere sociale, cosa erano, pochi dolorosi sacrifici, se necessari alla collettività e poi il ricambio continuo dei lavoratori era stimolante e proficuo per il progredire della ricerca. 

Dopo poche ore che la nave aveva lasciato l'atmosfera infetta del pianeta, già affluivano i primi risultati, con molte sorprese inaspettate. In generale, le civiltà muoiono a causa di guerre e di armi letali che una parte di popolazione più aggressiva utilizza per eliminare il nemico, soccombendo poi a sua volta della stessa morte. In questo caso invece, l'enorme quantità di materiale organico ancora sparso sulle rovine aveva dato un verdetto ineccepibile se pur del tutto inatteso. I reperti mostravano inequivocabilmente la presenza di un retrovirus letale, il Citovorax politicus, che si credeva estinto, dopo che una sua antica mutazione si era incistata stabilmente nel genoma di tutta la galassia, cambiando solo di poco le abitudini, ma diventando controllabile e poco dannoso. Questo terribile microorganismo, aveva un'azione incontrollabile sui recettori cerebrali, agendo direttamente a mezzo di un DNA ricombinante che costringeva chi ne era affetto ad abbandonare ogni attività lavorativa e dedicarsi con costanza insaziabile a divorare ogni risorsa disponibile, ogni prodotto accessibile, qualunque bene e cespite, finanziario o materiale che fosse, fino al suo completo esaurimento. 

Questa arsura inarrestabile, questa sete mai spenta, costringeva i colpiti, chiamati con vari nomi dal resto della popolazione, tenuta in scacco da costoro che si aggregavano in bande dette appunto degli Anziani, degli Onorati, dei Consigliori, degli Assessoruti, dei Con-Sulentes o dei più temibili i Presi-Dentes a cui una trasformazione genetica aveva mutato la dentatura che era costituita da soli canini lunghi ed aguzzi, costringendoli, loro malgrado, a divorare con insaziata voracità ogni cosa con cui venivano a contatto. Cominciavano generalmente dalle ostriche e dalle cozze pelose, finendo col mangiarsi, man mano che diminuivano cespiti e finanziamenti, l'intera popolazione, Infine, rivolgevano la propri bestialità su se stessi, fino all'estinzione completa. Eh, triste fine per chi non si sa controllare. pensava Paularius, mentre disteso sul letto foderato di morbida pelliccia pubica, era sottoposto come ogni sera, al consueto massaggio delle mille lingue. Per fortuna che su Surakhis, il virus era ben controllato e ristretto alla sola classe dirigente. 



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Spirito di servizio.

lunedì 24 settembre 2012

Recensione: Han SuYin - Fin che verrà il mattino.

Il romanzo più noto di questa scrittrice euroasiatica (il padre è addirittura di etnia Hakha) è L'amore è una cosa meravigliosa. Dopo il successo planetario del film che ne è stato tratto, è logico aspettarsi che l'autrice abbia campato di rendita. Infatti mi sono avvicinato a questo tomo di oltre 700 pagine come ad un grasso Harmony dal sapore esotico, sperando al massimo di scovarvi qualche cosa di interessante sulla vita cinese. Devo dire invece che mi sono abbondantemente ricreduto, infatti, sfrondata del melenso e della melassa di cui in effetti il libro gronda, l'ossatura della storia è di grande interesse, in quanto descrive minutamente e dall'interno, quindi con grande cognizione di causa, la storia della guerra civile cinese, dagli anni quaranta fino al termine della rivoluzione culturale e oltre. Inoltre, essendo largamente autobiografica (a parti invertite, nella vita il medico è l'autrice che ha sposato un militare dell'esercito nazionalista, nel libro è una giornalista americana che sposa un medico cinese di Chung Ching), il racconto mescola di continuo fatti effettivamente vissuti dall'autrice in prima persona ad avvenimenti di fantasia, tutti però in un rigoroso contesto storico che dettaglia molto bene e, a mio parere, in modo sufficientemente obiettivo, un periodo cinese molto confuso e cosparso di tali orrori, da fare impallidire altre guerre. 

Ho trovato davvero interessante la puntuale descrizione della vita all'interno della Cina di quel periodo e mi sembra che il libro sia di molto aiuto per comprendere gli avvenimenti che hanno portato alla lotta tra nazionalisti e comunisti, la lunga marcia, l'imporsi del maoismo, i rapporti con l'URSS e con gli USA, la guerra di Korea, la rivoluzione culturale, il Vietnam e così via, tutto visto con gli occhi di chi ha vissuto in loco questi avvenimenti e tra la gente comune. La storia risponde bene alle domande che generalmente ci facciamo, quando ci si chiede, ma come è potuto succedere tutto questo, quali meccanismi hanno condotto a fatti che hanno poi determinato gli avvenimenti più importanti del secolo scorso?. Per questi, difficilmente troverete qualcosa, visto dalla parte dell'Asia. Dunque consiglierei, a chi è interessato di ricercare questo libro (che ormai è fuori catalogo) su eBay o sulle bancarelle dell'usato, senza lasciarsi impressionare dalla zuccherosità della storia d'amore che lega il medico idealista alla intrepida e sognatrice giornalista pronta a sacrificare tutto per il sentimento. Fate uno sforza, che vi troverete bene.


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domenica 23 settembre 2012

Riso amaro?


La Darola



Riso Amaro.
L'equinozio d'autunno apre la porta a alle riunioni conviviali dell'anziano, sempre bisognoso di ravvivare i ricordi, come i bimbi amano assillare il genitore a farsi raccontare la stessa fiaba di continuo, rappresentazione senza la quale non riescono a prendere sonno tranquillamente. Per la persona agée invece, il bisogno è probabilmente dato dal desiderio di ottundere i sensi cancellando dalla mente gli avvenimenti dell'attualità e le considerazioni sociopolitiche. Eccoci dunque al consueto appuntamento coi compagni di università, questa volta nella pace operosa della risaia vercellese, sublime visione di land art, che riempie di quadretti bordati la piana sconfinata, una immensa tela di Mondrian dove perdere lo sguardo nell'essenzialità delle righe nette che delimitano l'oro delle spighe ormai cariche e pronte per la raccolta. Tutto questo in una delle più belle cascine della zona, la Darola, una spettacolare corte chiusa dove ti senti subito circondato dai fantasmi delle centinaia di persone che la abitavano e dall'esercito di mondine che calavano qui fino a pochi decenni fa, gioia e delizia del padrùn da li beli braghi bianchi che in calessino percorreva gli argini, programmando serate bollenti sull'aia, altro che festini trimalcionici in toga e mantello. 

Al contadino non far sapere.
Eccola là, lungo l'argine spuntano i seni aguzzi di Silvana Mangano e il suo riso amaro che ha segnato un'epoca. Per i vecchi ragazzi invece, la sequela degli amarcord, dei professori terribili, di quegli esami da cardiopalmo, con la reiterazione infinita di episodi memorabili. Ma non credo che questo possa interessarvi più di tanto, si tratta di storie che emozionano solo chi le ha vissute, meglio quindi ragguagliarvi sul concreto; prendete dunque nota di questo indirizzo: Ristorante Il Convento, Via Hermada 3A - Trino Vercellese, (0161.801325). In un ambiente curato ed elegante, dopo un semplice aperitivo, subirete per 35 euro un assalto di antipasti, che con una selezione di affettati, vi proporranno due delicate quenelles di una crema di formaggio sapientemente miscelate alle noci con qualche fettina di pere alle spezie, seguite da un agrodolce  di peperoni con olive e pinoli e un classico carpaccio all'Albese, profumato al sedano. Infine ecco arrivare quello che mi è parso il tocco di classe più azzeccato, l'uovo morbido impanato disteso pigramente su un letto di crema di patate al tartufo, che quando il vostro cucchiaio affonderà, aprendo il sottile involucro dell'albume rappreso, rilascia deliziosamente il liquido tuorlo ad abbeverare la crema profumata in un matrimonio sensuale e goloso. Un tripudio di sensi da appagare e prontamente appagati. 

L'uovo al tartufo
Ma incombe subito una mezza forma di parmigiano dove insaporisce un Carnaroli sapido e cremoso. Se mancasse un risotto di tal fatta, non saremmo nel Vercellese. Consiglierei di non perdere una seconda porzione. A seguire la faraona al forno con la frittura mista dolce, dal semolino alle mele pastellate. Essendo stati ancora leggeri, ecco incedere un sapido arrosto di coppa, pervaso da un appropriato profumo di ginepro e patate. Una torta chantilly vi segnalerà che è ora di passare in giardino per la tazza di caffé. Onesto dolcetto di Dogliani per condire il pasto, ma attenzione, il controllo dell'alcoolemia è puntuale e costante nella zona. Non vengono comprese nella fornitura maschere di maiali, ne toghe alla romana, d'altra parte siamo in un antico convento e non mi sembra il caso, al massimo qualche barzelletta della gioventù ormai sfiorita. Insomma un rapporto qualità prezzo encomiabile, scovato dagli amici vercellesi che ci hanno organizzato una giornata davvero gradevole. Ma adesso prepariamoci ad altre fatiche.

Il risotto!


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venerdì 21 settembre 2012

Cinquanta sfumature di grigio.

E' davvero strano come il termine della vacanza, intesa in senso figurativo naturalmente, detto da chi è in vacanza tutto l'anno, coincida con una sensazione di grigiore incupita, anche se con diverse sfumature, come se l'aria si fosse improvvisamente fatta più pesante, più difficile da respirare e non si tratta soltanto di alzare lo sguardo e non vedere più la linea azzurra che separa il mare dal cielo o la frastagliata cresta verde scuro delle montagne, ma di qualche cosa di più insidioso e un certo senso doloroso. E' un po' un ritorno alla realtà, ai piedi per terra, all'inevitabile quotidiano. Così ti devi misurare con quegli imput che per un po' avevi creduto passati in sottordine, quasi sfocati nel ricordo, specie se avevi optato per difficoltà logistiche o per scelte personali di isolamento anacoretico, di staccarti per un certo periodo dai media, senza televisione o altro, con le notizie che arrivano come un lontano brusio di rumore di fondo, che puoi praticamente trascurare per dedicarti meglio alla cura dell'anima, all'immanente. Però ecco qua che ritorni coi piedi sulla terra e le notizie ti arrivano addosso come schiaffi che non riesci ad evitare, imbambolato ed indifeso come ormai sei divenuto dopo l'astenia di un paio di mesi.

Non riesci neanche a commentare e continui a rigirare attorno all'argomento come una gallina che becchetta nervosamente sull'aia. Quanto succede alla giunta del Lazio, come lo puoi discutere? E' inutile farsi prendere dallo sdegno. Tanto tutti sanno oramai che basta alzare una pietra e non riesci neppure a distinguerlo il verminaio che compare. Giustamente i fratelli Vanzina si sono offesi per essere stati i loro film paragonati a quanto emerge. Loro sono gente seria e lavorano per far sorridere le persone, mentre qui da ridere non c'è nulla. Il povero Cetto La Qualunque si rivoltola nel letto di Procuste, ormai superato talmente nell'eccesso dalle feste trimalcioniche, da rendere diminutive e edulcoranti le sue macchiettistiche vicende; è ormai diventato quasi un uomo da votare davvero, uno dei meno peggio. Nessuno vuol riflettere che quanto accade, quando lo sciame di locuste individua un cespite su cui gettare la propria insaziabile voracità, è il frutto dell'unico tipo di federalismo che è operante in Italia, quello regionale, che l'altro esercito di parassiti, ancora magri e famelici vorrebbe estendere di più, ancora di più per potersi saziare finalmente del nostro sangue.

Eppure tutto questo non è emerso per indagini dei giudici o per controllo di opposizioni acute e marcanti. Affatto, si sono denunciati l'un l'altro tra compari, gli uni innervositi di dover far parte anche agli altri del ben di dio, gli altri spintonando per scacciare chi è dalla parte più succulenta della greppia. Tutti si accaniscono con i ladri ed il furto continuo, senza rendersi conto che potrebbe anche emergere, e vi assicuro, pensateci bene, che sarebbe estremamente più grave, che forse tutto quanto viene alla luce, dalle feste coi porcellini alle paghette extra di centomila euro a testa dei consiglieri, forse sono del tutto regolari, dovute e senza traccia di illeciti. Cioè questo sistema è perfettamente legale e inappuntabile dal punto di vista penale. Capite la gravità della cosa? Il danno irreparabile che ne viene è che la politica sarà questo e solo questo per la maggioranza della gente per molti anni a venire e tutto ciò uccide la democrazia e apre la strada ad altro. Tornare a casa e pensare di dover rimpiangere Marrazzo, mi fa venire un brivido freddo sulla schiena. Un velo grigio con tante diverse sfumature cala davanti agli occhi.


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Economia politica 1.

giovedì 20 settembre 2012

Recensione: Pearl S. Buck – La madre.



Torno su questa autrice di così facile ed affascinante lettura, un po’ per l’ambientazione dei suoi lavori, un po’ perché il periodo in cui scrive, guarda caso anche lei negli anni trenta, riguarda una fase della storia cinese poco conosciuta  e per me molto interessante. Questo La madre, segue il tono e le storie della Buona terra, con la sua epica contadina, ma, mi pare, coglie aspetti più universalistici, tali per cui la Cina rimane molto sullo sfondo e il racconto potrebbe essere uguale se ambientato in molti altri luoghi, non per niente mi ricorda le storie nella Sicilia di Verga, con gli archetipi comuni della povertà, del legame del contadino alla terra e alla roba e della maledizione che relega la donna su un piano decisamente sottostante all’uomo, condannata ad una fatica morale e materiale senza uguali, accompagnata da una sorta di maledizione genetica a cui essa stessa sa di non potere sfuggire. 

Perché come almanacca lei stessa, madre rusticana che passa attraverso le traversie della vita: ”Un bambino che sta per arrivare è fonte di gioia ma anche di preoccupazioni. Potrebbe nascere morto. Oppure deforme o cieco o scemo; o addirittura potrebbe essere una femmina”. In queste parole sta tutto il tema della Buck e il personaggio, la madre, allo stesso tempo sacrificio, dedizione, amore. La madre che va a cercare una moglie per il figlio nel villaggio vicino, in quanto là “ci sono molte ragazze, perché per tradizione non le ammazzano”. Reliquia di una civiltà morale che povertà, ignoranza e precarietà fisica sembrano sommergere. Sempre lirico e naturalistico il racconto si dipana attorno a questa figura centrale a cui tutti devono fare carico, mentre lontani, sullo sfondo, rumori di fatti nuovi e sconosciuti, talmente diversi da un mondo uguale a sé stesso da millenni, incombono con la loro rude spietatezza.




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mercoledì 19 settembre 2012

Gorbio, un village pérché.




Un altro consiglio per un pomeriggio da passare lontani dalla spiaggia, se non ne potete più di sole e di acqua salata. Per chi è in zona dunque, ecco Gorbio, uno dei tanti paesini arroccati in posizioni a nido d’aquila, appena a ridosso della costa. Per una stradina di otto chilometri, partendo da Mentone, che risale una valle all’apparenza solitaria e selvatica, tra pini, olivi e macchia mediterranea, tra rocce incombenti e scoscesi strapiombi,  arriverete sullo sperone roccioso su cui è abbarbicato un gruppo di case il cui colore quasi si confonde con la roccia, se siete controsole. Nella piazzetta che vi accoglie al limitare del paese, fa bella mostra di sé, un olmo tricentenario piantato nel 1713 in occasione del trattato di Utrecht, con il quale tutta la regione veniva passata al regno di Savoia. Ti avventuri per le stradine coperte, tra le case con le piccole finestre e le facciate corrose dal tempo, nel dedalo dei vicoli, scansando gli anziani che lungo le ripide scale giocano alle tradizionali bocce quadre (eh se no sarebbe un bel problema, rincorrerle giù fino al mare) fino ad arrivare alla chiesa che compare all’improvviso dietro un angolo e alla cappella dei penitenti neri. Poi proseguendo nel labirinto di viuzze arrivi al punto più alto del paese, alla torre Lascaris, il palazzotto fortificato (ce ne sono già tracce nell’anno 1000) dove dal sommitare potrai godere di un panorama di tutta la costa davvero impagabile, che nelle giornate più chiare arriva fino al promontorio di Bordighera. Volendo potrete anche ritornare a piedi (è tutta discesa, ehehehe).





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martedì 18 settembre 2012

Recensione: Henry Miller – Max e i fagociti bianchi.

Sono stato preso da questa serie di libri della prima parte del secolo scorso. Bisogna osservare che questo periodo è stato davvero straordinario per la cultura mondiale e Parigi, per almeno 50 anni a cavallo tra 800 e 900 deve essere stata un luogo davvero incredibile per la presenza di tali e tante idee, movimenti, artisti e letterati che vi arrivavano da ogni parte del mondo per scambiarsi opinioni, creare, stimolarsi a vicenda. Un crogiuolo senza pari dove sono fiorite in numero davvero inusuale filosofie e opere d’arte, inclusi tarli e abissi dove sprofondare le menti come il diffuso antisemitismo , che appare del tutto logico e normale se si leggono con attenzione le opere di questo periodo anche in scrittori del tutto insospettabili. Lo stesso Miller che ci visse quasi fino allo scoppio del conflitto mondiale, dice che se dopo Hitler ci saranno altre mostruosità capaci di compiere azioni orribili contro l’umanità, queste non potranno formarsi che a Parigi (Pol Pot ne è stato un esempio lampante). Questo libro piuttosto interessante, è una raccolta di saggi che l’autore scrisse negli anni trenta, tra i due Tropici, proprio a proposito dei movimenti artistici del momento commentando movimenti, film, autori e stili di vita con il suo stile beffardo e ribelle, apocalittico e visionario, sempre dissacratore e negativo sul futuro della nostra civiltà. 

D’altra parte sempre ritorna il tema della crisi economica del 29 che ad un lustro di distanza non accennava a spegnersi (vi ricorda niente?) e che poi è stata risolta col bagno di sangue del conflitto mondiale. Particolarmente acuti ed interessanti i giudizi critici su Proust e Joyce, la scoperta di Bunuel in quello che forse è il suo primo film con la collaborazione di Dalì, L’età dell’oro, o sui diari di Anais Ninn, per non parlare del lungo articolo sul surrealismo di cui si sente a pieno titolo partecipe, movimento che sente assolutamente fondamentale per quel momento storico in cui tutto sta scivolando verso un finale che sembra già scritto. Emblematiche le parole che chiudono il saggio: “Rimangono i mangia morte (e Harry Potter è ancora lontano) coloro che prendono sempre più il comando a mano a mano che il futuro si apre. Destinati ad affrettare lo sfacelo d’un mondo già defunto, essi galvanizzano la morta gioventù di questo mondo in un momentaneo entusiasmo. Dappertutto la gioventù è chiamata alle bandiere; come in ogni altra epoca, si agghinda per l’ecatombe rituale. La causa! Per amore della causa presto i demoni saranno sguinzagliati e riceveremo gli ordini di avventarci gli uni alla gola degli altri.” Era il 1935. Anche questo, un libro propedeutico per meglio capire l’autore del Tropico del Cancro e molti meccanismi perversi che si reiterano continuamente nella storia dell'uomo.



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lunedì 17 settembre 2012

Museo Léger a Biot.


 La Provenza e la Costa Azzurra, hanno per diversi motivi esercitato un richiamo irresistibile per molti artisti del secolo scorso ed è facile capirlo, basta fermarsi un momento a guardare il mare tra gli uliveti della costa o rimanere all'ombra avara della vegetazione mediterranea ad aspirarne i profumi,  per essere abbagliato da una luce e da colori che non hanno uguali. Quindi, per chi ne ha voglia, tra un bagno e l’altro c’è occasione per dare un’occhiata ad una serie di musei tematici davvero interessanti. Lasciate dunque Cagnes-sur –Mèr, dove avrete visto lo splendido museo Renoir, di cui se non sbaglio vi ho già parlato, e dopo qualche chilometro eccovi a Biot, villaggio dove potrete perdervi nel vecchio centro e girovagare tra i tanti atélier de poteries e vetrerie che lo fanno famoso , ma appena fuori del paese troverete una grande costruzione che ospita un lascito degli eredi di Ferdinand Léger, con oltre 300 opere di questo straordinario artista. A partire dal giardino, dove sono esposte diverse grandi sculture, alla costruzione stessa, letteralmente foderata con giganteschi mosaici progettati dall’artista per sedi di tutto il mondo.

All’interno, ben esposte, assieme ai suoi primi rarissimi (perché nella maggior parte Léger stesso distrusse le opere di questo periodo ritenendole indegne di rappresentarlo) lavori postimpressionisti e qualcuno in cui compare netta l’influenza di Cézanne, ecco diversi lavori cubisti e poi ecco subito le grandi tele che fanno riconoscere al primo colpo d’occhio il suo stile caratteristico, dove dominano i colori primari ricchi e gioiosi, e la forma netta che lo contraddistingue. E’ tutto un rutilare di immagini gigantesche dove vince il suo amore per il ritmo, per le macchine, la poesia degli oggetti e la bellezza della città moderne, un tema che ha affascinato anche tanti altri artisti di quel periodo. Accanto al lavoro e alla città industriale, ancora lo splendore evocativo del colore riempie la natura dove si inneggia alla gioia della vita o il fantastico universo del circo. Vedere il lavoro di certi artisti riprodotto in un libro o averli di fronte nella realtà, non ha davvero paragoni. La forza e la poesia che ti comunicano I tuffatori policromi, i costruttori o i suoi ciclisti baffuti, visti da vicino, ti lasciano davvero senza fiato. Per riprenderti è almeno necessario pensare alla bouillabaisse che ti aspetta al porticciolo di Villefranche, un poco più indietro.


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domenica 16 settembre 2012

Recensione – James Joyce – Gente di Dublino.


Ve l’ho detto che approfitto della pausa estiva per rivisitare i classici. D’altra parte questa raccolta di racconti che Joyce terminò come primo esercizio letterario  nel 1906, ma che fu rifiutato da più di quaranta editori e pubblicato poi nel ’14, è decisamente intrigante. Secondo me va presa alla leggera, godendosi la galleria di personaggi che l’autore ci presenta in tutta la loro ricchezza macchiettistica e tipicamente irlandese, con gli stereotipi dell’ubriachezza, dell’impiegato maltrattato, dell’ipocrita fanfarone, l’ebreo sanguisuga (come era presente dovunque in quella Europa questo tarlo maligno!), del ragazzino sognatore e così via sul fondale della sua Dublino lurida e cupa, senza stare a ricercare tutto quel sottofondo di modelli universalistici, di sottintesi e di non detti che sta alla base del lavoro di Joyce e che trova poi la sua estrinsecazione nell’Ulisse o nel Finnegans wake. Qui la narrativa e il linguaggio sono ancora decisamente ancorati ad un visione naturalistica e poetica, senza la pretesa di ricostruire la storia dell’umanità intera. Anche se non si vuole affrontare la lettura delle sue opere più impegnative, io direi che va comunque letto.


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venerdì 14 settembre 2012

Recensione: J. Hilton – Orizzonte perduto.


Il libro, del 1935, ha avuto una certa notorietà in tutto il mondo, tanto è vero che fu pubblicato in Italia da Mondadori già nel 1936. Quando uscì il film omonimo di Frank Capra , poi, il successo fu planetario (addirittura Henry Miller lo classificò come il film più significativo prodotto ad Hollywood fino a quel momento), infatti nomi come Sangri-la e la visione di un mondo perduto e meraviglioso, che mantiene la giovinezza e la serenità, ma che allo stesso tempo diventa una prigione implacabile, da cui è impossibile fuggire così come è quasi impossibile arrivare, è ormai diventato un luogo comune spesso usato per definire questo luogo della fantasia comune alla favolistica di tutti i tempi. Se ci aggiungiamo il fascino dell’esotico e in quegli anni parlare di Tibet e Himalaya era davvero una favola lontana, ci sono tutti gli ingredienti perché la storia piacesse e molto. Al trascorrere dei decenni direi che il libro non regge più molto, anzi mi sembra decisamente sopravvalutato e oggi lo si può leggere solo come informazione storico letteraria, più che con il piacere che dovrebbe dare un buon romanzo. Per chi fosse interessato qui la versione completa del 1973. L’unica cosa che mi è parsa molto interessante invece, è come in quegli anni aleggiasse già il timore per qualcosa di orrendo e globale che stava per avvicinarsi. Si percepiva quindi nitidamente che una guerra devastante era alle porte e questo è un buon punto di riflessione. Per il resto direi che si può lasciare perdere. 



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giovedì 13 settembre 2012

Recensione: E.de Waal – Un’eredità di avorio e ambra.


Come si sa non c’è nessuno così occupato come chi non ha niente da fare. Per questo motivo, io sono così preso da attività varie che ho pochissimo tempo per leggere e riesco a mala pena ad esaurire nell’anno i libri che mi regalano, non più di una ventina all’anno (come noterete dalle mie recensioni). Dunque non riesco mai a comperarmi i volumi che mi interesserebbero. Per fortuna che gli amici regalatori, mi conoscono e gli argomenti sono quasi sempre quelli che mi avvincono. Ecco dunque questo volume che ha avuto, pare, un sorprendente successo di pubblico, anche se l’inizio potrebbe apparire un po’ noioso. La scusa viene dal seguire il percorso di una collezione di netsuke, microscopiche sculture in avorio o ambra o legno di bosso della tradizione giapponese, che si tenevano legate all’obi del kimono e che rappresentano animali, frutta o piccole scene della vita quotidiana. In realtà l’autore, un artista ceramista inglese, in questa ricerca ripercorre la storia della sua famiglia, i famosi banchieri ebrei e commercianti di granaglie Ephrussi, sette generazioni attraverso tre secoli. 

Una storia affascinante che percorre paesi e città segnati dallo svolgersi degli eventi che hanno condizionato l’800 e il 900 a partire dal piccolo shtetl, un misero villaggio ebreo al confine tra Polonia e Ucraina fino ad Odessa, dove cominciano le fortune della dinastia che li porteranno nella Parigi fin de siècle, mentre un altro ramo conquisterà i fasti della Vienna imperiale. Ma la storia si intreccia mirabilmente con tutti i movimenti artistici dell’epoca e con gli artisti ed i letterati che vengono a contatto con i vari personaggi della famiglia, mentre si continua a seguire il viaggio della collezione di statuette in movimento tra Parigi, Vienna e Tokio. Latente sempre sullo sfondo il problema ebraico. 

Lascia stupiti leggere le documentatissime ricerche, dove emerge un odio razziale, che partendo dai pogrom della lontana Russia si trasferisce con una virulenza che lascia senza fiato nella Parigi della Belle époque (vedi affaire Dreyfus), dove leggi con orrore le parole che riguardano gli ebrei di personaggi come Degas e Renoir; sentimenti affatto uguali nella Vienna Asburgica, dopodiché il nazismo e le sue opere appaiono come conseguenze assolutamente logiche e naturali, ben approvate da una parte molto consistente del sentire comune. E’ davvero interessante la comparazione di questi documenti francesi e austriache ed è altrettanto curioso notare come argomenti, parole e concetti siano gli stessi che oggi si sentono spesso nelle esternazioni dei vari movimenti nazionalpopulistici dei vari paesi europei di oggi (dove variano ormai dovunque tra il 7 e il 20 %) riguardanti gli immigrati arabi. C’è da meditare molto al riguardo, mentre ci si lascia accompagnare in questo racconto avvincente a più livelli. Oggi non ho neanche trovato il tempo di fare il bagno, eppure in spiaggia faceva piuttosto caldo.


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