venerdì 29 gennaio 2010

Rosso sangue.

Il giorno seguente, lo dedicammo a Chichenitzà, forse il più conosciuto e visitato tra i siti Maya, oltre ad essere probabilmente il meglio conservato. Fu appena dopo un temporale che attaccammo la ripida salita alla piramide di Kukulkan, perfetta e bellissima, mentre il sole forte graffiandone impietoso i bordi, disegnava l’ondulazione del serpente piumato sul prato sottostante. L’ombra sembrava muoversi sinuosa sul terreno seguendone lenta le piccole asperità. L’aria era perfettamente pulita e ti consentiva di penetrare per chilometri la selva alle spalle dei monumenti di pietra bianca. Potevi contare le foglie lontane ad una ad una. C’era poca gente quel giorno in giro tra le rovine silenziose e lungo il muro basso dietro, il tempio dei giaguari, un gruppo di donne silenziose parevano attendere l’arrivo di qualcuno. Quando entrammo nel grande campo rettangolare del gioco della palla, eravamo soli. Sembrava di sentire cupi colpi di tamburo provenire da Tzompantli, il tempio dei teschi, la piattaforma che conteneva le teste di tutte le vittime sacrificate, e da un momento all’altro le squadre dei giocatori, passando lungo il fregio ornato di festoni di teschi in rilievo e di aquile che dilaniano i petti aperti per divorarne i cuori, dopo essersi a lungo purificate nella retrostante Casa del Sudore, sarebbero entrate, coperte dai mantelli di piume di quetzal a sfidarsi, a colpire la palla di caucciù coi gomiti e con le ginocchia per indirizzarla nel grande anello di pietra verticale su di un lato del campo, mentre la folla sui gradini gridava, inneggiando ed incoraggiando le squadre, per vincere ed annichilire gli avversari e permettere così al proprio capitano, il più meritevole di tutti, il preferito dagli dei, sarebbe stato condotto, ricoperto dalle vesti più belle nella sacra processione al tempio delle colonne, avrebbe lentamente salito la lunga scala santa fino alla cima del tempio dove era posto il Chak Mol, l’altare su cui, volontariamente si sarebbe disteso, mentre il sacerdote avrebbe alzato il grande coltello rituale di ossidiana verde, gli avrebbe squarciato il petto per prendere con le mani il cuore palpitante, lo avrebbe mostrato alla folla urlante, prima di gettarlo giù lungo la scala a fecondare la terra, a garantire raccolti migliori e la pioggia mandata da Chak, abbondante e fertilizzatrice. Ce ne andammo a sera dopo aver a lungo vagato tra le rovine, avendo forse preso troppo sole. La bambina sembrava scossa, andò a letto con la febbre alta.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

E' un peccato che io non sia potuto salire sulla piramide. Chiusa così come quelle di Palenque. Troppi turisti. Rischaiva di venire rovinata per sempre.

Enrico Bo ha detto...

mi hanno detto che adesso le hanno chiuse, ma per evitare che i turisti rotolassero giù, cosa che pare accadesse di frequente. Peccato per quella di palenque , dall'alto cè una visuale notevole.

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