sabato 31 gennaio 2009

Involtini primavera e bagna cauda

Un mio precendente post : Xué, ha suscitato una qualche attenzione e mi sento quindi in dovere di aggiungere un approfondimento sulla questione, che, come sempre, è talmente complessa da apparire comunque molto riduttivo cianciarne in quattro battute. Ad un mio tentativo di andare un po' più in profondità su quanto sta sotto la superficie della via allo sviluppo cinese, Damiano ha contrapposto una realtà come quella che vive personalmente in un luogo, Prato, dove i problemi negativi causati da questa via, uniti a quelli dell'immigrazione presentano per tutti gli attori interessati un negativo che prevale pesantemente su qualsiasi aspetto positivo della questione. D'altro lato, NonVedente, non toccato in prima persona, si meraviglia dell'importanza data a questo aspetto, di certo più attento al lato teorico dell'accoglienza e forse anche dalla poca "fastidiosità" che la comunità cinese, sotterranea anche nel comune sentire, provoca in generale nella maggioranza delle comunità. In queste poche battute si assommano una serie di grane sociali da riempire decine di saggi sociologici su problemi di cui nessuno negli ultimi duemila anni (e sottolineo nessuno) ha trovato il bandolo. Come lo scorrere dell'acqua dall'alto verso il basso (credo che si chiami forza di gravità), il fenomeno migratorio è (ed è stato) assolutamente inevitabile ed inarrestabile fino a quando ci sarà un luogo dove si sta bene ed uno dove si sta male o malissimo. Perchè chiunque, prima di morire cerca di spostarsi in un altro luogo, rischiando anche la vita, dove forse riescirà a sopravvivere, magari anche in una baracca od in un sottoscala. Sono stati trovati degli ostraka in Sudan, nella zona dell'estremo limes dell'impero romano, su cui erano scritte raccomandazioni che clandestini etiopi, forse morti di stenti nel deserto, portavano con sè per poter superare il confine dell'impero per poter arrivare ad imbarcarsi per giungere a Roma. Non cambiano molto le cose nel tempo, vero? Negli Stati Uniti, che hanno uno dei confini più semplici da sorvegliare, nonostante il muro e i reticolati su cui la domenica qualcuno si esercita nel tiro al clandestino, ci sono all'incirca un miglione di irregolari all'anno. Non è facile fermare l'acqua che scende, anche se qualcuno propone ricette facili quando si va al voto. Un secondo punto è la tremenda tendenza dell'uomo a sfruttare il suo prossimo appena gli è possibile e la presenza di una posizione forte ed una debole, genera questo effetto come per legge naturale. Qui si innesta il terzo punto. In uno stato che vuole essere civile, una politica seria e capace (capisco che questo sia un ossimoro estremo ed improbabile) deve controllare e perseguire senza pietà i comportamenti illegali, che partono spesso dalle piccole cose, fino a provocare disagi sociali di grande entità e molto più difficilmente controllabili. La cosa, proprio nella situazione denunciata da Damiano, era (ed è) molto facilmente gestibile, in quanto queste illegalità non sono costituite da furti, scippi, rapine, dove chi delinque deve essere rincorso ed acchiappato, ma sono tutte ben ferme e facilmente controllabili e punibili. Con chi bisogna prendersela se sorge una città illegale di sotterranei in cui si compiono reati edilizi, di sfruttamento, merceologici e chi più ne ha più ne metta? Intervenendo all'inizio o durante e comunque intervenendo, questo è un problema che si può risolvere, volendolo fare. Qui da noi, i banchetti di cinesi al mercato, sono continuamente controllati (sicuramente più degli altri) e non si vedono comportamenti fuorilegge e la comunità cinese è certamente quella che dà meno problemi di convivenza. Certo bisogna stare attenti che l'esasperazione prodotta dall'illegalità, non faccia confondere i problemi. Laboriosità, sacrificio, poca lamentosità sono doti e non difetti. Sono queste che stanno alla base del successo cinese nel mondo. Sfuttamento, delinquenza e altro, sono devianze da limitare (eliminare non è, come già detto, nella natura umana), ma non credo che siano il fattore portante del fenomeno cinese. Sono certo che chi conosce la Cina al suo interno, concorda con me, che laggiù questi fenomeni sono molto inferiori a quanto si pensa (o ci si illude di credere). Molto spesso chi ha la tendenza a sfruttare sono le aziende straniere, quelle che più sbraitano sul problema dei tarocchi, che temono di non poter più vendere a 50 dollari quello che producono a 1 dollaro (perchè vale 1 dollaro in effetti). Le stesse condizioni di lavoro, vanno via via migliorando laggiù, secondo il naturale trend che anche le nostre economie hanno fatto nel tempo, anche più in fretta di quanto si creda. Piangere perchè non riusciamo più, noi a Prato a fare le magliette come i cinesi, mi sembra una battaglia di retroguardia che si dovrebbe aver superato. Difendere un sistema che non può più esistere, cercare di ritornare ad essere noi i cinesi, mi sembra sbagliato, oltre che comunque velleitario. Non approfittare dell'occasione che ci offre una colossale economia che ancora ha enormi margini interni di sviluppo ed ha la capacità di perseguirli (forse in questa spaventosa crisi mondiale crescerà solo del 7% invece che il 9% come previsto!), rimanendo loro sempre davanti, con tecnologia e creatività e non dietro, sperando di tornare a fare magliette e scarpacce di gomma, non entrare a mangiare una fettina di questa enorme e succulenta (oltre che unica) torta disponibile, mi sembra terribilmente miope. Certo bisogna perseguirla la creatività e la tecnologia e poi non servirà neanche sforzarsi per imporgliela, chè loro sono i nostri primi estimatori. E come ho già detto più volte, speriamo che, ammirandoci, continuino a copiarci, perchè questa sarà (io almeno credo) la nostra salvezza. E stasera involtini primavera per tutti (anche per Damiano dai!).

venerdì 30 gennaio 2009

Gennaio (?) dolce dormire

Brutta storia il sonno, specialmente se hai un sacco di cose da fare, magari dopo una serata solo un filo alcoolica in discoteca(?), anzi è proprio quando ne hai di più che dormiresti tutta la mattina. Poi ti senti un po' colpevole, pensi che ne avrai di tempo per dormire, poi ...... ma in fondo, che importa, è bello lasciarsi andare tra le braccia di Morfeo mentre il gelo dei giorni della merla avvolge la città. Dormire, sognare, chissà. Uno stesso tema trattato da Li Po e Ommar Khayyam così distanti, così vicini.

Svegliandomi dall’ubriachezza in un giorno di primavera

La vita nel mondo non è che un lungo sonno:
Col lavoro e le cure non la voglio sciupare.
Così dicendo restai tutto il giorno ubriaco
Allungato nel portico innanzi alla porta di casa.
Sveglio, sgranai gli occhi abbagliati sul prato:
Un uccello cantava, solo, in mezzo ai fiori.
Mi chiesi se il giorno era stato bello o piovoso:
Lo zeffiro ne parlava all’uccello mango.
Da quel canto commosso trassi un lungo sospiro
E poiché il vino c’era riempii la mia coppa.
Come un pazzo cantando attesi l’alba lunare;
A canzone finita i miei sensi se n’erano andati.


Li Po

Poiché non sono verità e certezza in nostro possesso,
Non si può con speranze dubbiose aspettare tutta la vita.
Il palmo della mano non deve lasciare la coppa del vino:
In tanta ignoranza dell'uomo che importa esser sobri o ebbri?


Ommar Khayyam

giovedì 29 gennaio 2009

Cocoons

Gospadin Bulik era un Karachaijevo allampanato, sempre stretto in un cappottino liso e leggero, anche in gennaio. Aveva una barbetta rada ed i capelli corti sotto un cappello di pelle nera di antico uso, al di sotto del quale, due occhietti da faina ti esaminavano, sempre un po' in tralice. Andrej assicurava che avesse potenti contatti in Asia centrale, ma quando eravamo andati nel suo ufficio, un buchetto scuro in una specie di conteiner di compensato, non ci aveva fatto una grande impressione. Si occupava soprattutto di trading di cotone dai paesi di lingua turchesca che dominava assai bene, parlando sempre con voce cupa e bassissima. Era un affare grosso quello che aveva per le mani. In Turkmenistan venivano prodotte grosse quantità di bozzoli da seta che, per la mancanza di macchine adatte andavano per la maggior parte perduti. Un progetto ambizioso, da almeno 5 milioni di dollari. Avevamo lavorato per mesi all'idea, con una interessante triangolazione che lo rendeva molto competitivo. La prima parte delle macchine per trattare i bozzoli venivano acquistate in Cina (l'unico posto dove venissero ancora prodotte), mentre quelle più sofisticate della seconda parte dell'impianto, le avremmo ordinate a Como, centro della lavorazione della seta. Noi saremmo stati i main contractors del progetto e del commissioning. Bulik ci confermò con mezze ammissioni che l'offerta era molto piaciuta. Era quindi venuto il momento di chiudere il contratto. In una gelida mattina di gennaio, ci ritrovammo quindi nel cadente stanzone di attesa (sala è un po' troppo) dell'aeroporto di Mineralnije Vady nel Caucaso, con Stefania, Andrej e Bulik, seduti sulle panche di faesite scrostata, prima di salire sul gigantesco Iljiushin per Ashgabad. Saremo stati al massimo una trentina e le hostess (nessuna di peso inferiore ai cento chili netti) ci fecero sedere tutti in fondo all'aereo, in una tremenda puzza di gatto morto, in quanto pare che quel modello decollasse meglio se ha tutto il peso in coda. In qualche modo il volo si concluse positivamente, depositandoci in Turkmenistan in condizioni igieniche deprecabili. Pensavamo di rassettarci alla meglio in albergo, ma l'orrenda bicocca scelta da Bulik, a suo dire il meglio che offriva la piazza, ci depresse ulteriormente. Come di consueto, il figuro al bancone fece un sacco di problemi; infine riuscimmo ad ottenere almeno due stanze col pavimento coperto di scarafaggi morti e bucce secche di mandarino . Demmo la migliore, se così si può dire, a Stefania, già molto innervosita, io mi presi l'altra, mentre i nostri due, adducendo varie scusanti, si arrangiarono nel ricovero della dejurnaija, una matrona imbellettata che esibiva una nona sotto una maglietta pelosa di angora cinese. Mi rinchiusi, dopo che un topo, ma piccolo, era sgusciato nel corridoio, vagamente illuminato da fioche lampadine, in maggioranza bruciate o mancanti del tutto. Una notte difficile, circondati dalle orde dei germi dell'Asia Centrale, ultimo rifugio della peste bubbonica. Fu un risveglio doloroso, essendo poco praticabili le toilettes, con un tentativo di colazione con cetrioli in composta, pane cementizio e smietana. Alle dieci ci aspettava il cliente per illustrare il progetto. Era in ritardo, ma quando arrivò, la delusione ci fece quasi cadere tutta la documentazione che avevamo accuratamente preparato. Ci si parò innanzi una specie di pastore asiatico leopardiano, male in arnese, con una dubljionka spelacchiata da cui spuntava una giacchetta stazzonata, che spiegò a Bulik come il progetto andasse benissimo, mentre alla mia insistente e dubitosa domanda - Dienghy iest? - (ma i soldi ci sono?) fece spallucce, dicendo che dovevamo andare in banca per il finanziamento. Stefania mi lanciava occhiate interrogative, io cercavo assicurazioni da Andrej che a sua volta le chiedeva ad un sempre più impenetrabile Bulik. Giungemmo alla banca prima di mezzogiorno ed il nostro pecoraio, che per tutto il tragitto ci aveva illustrato le montagne di bozzoli in attesa di essere trattati, fu ricevuto con Bulik in direzione. Dopo un quarto d'ora, i due uscirono a testa bassa, cercando di guadagnare l'uscita con lo sguardo bastonato del cane a cui è scappato il gregge. Il direttore si avvicinò a noi con aria di scusa e ci spiegò che il nostro cliente non aveva ben chiaro come funzionassero i finanziamenti e che aveva creduto che, complice la perestroijka, fosse sufficiente andare in banca a chiedere il denaro (5 milioni di dollari) per ottenerlo! Era assai spiaciuto perchè riteneva il progetto molto interessante, ma come tutti i banchieri, in mancanza di garanzie... allargò le braccia. Inseguimmo i due e caricammo di contumelie il pastore, che se la filò in fretta promettendo futuri e certi finanziamenti, magari in miliardi di tenghé, la valuta locale, Bulik che ci aveva trascinato in quella sciocchezza, costataci tanto impegno e Andrej che non aveva controllato la serietà della cosa. Lasciammo Bulik al suo destino e quando tempo dopo ci contattò per proporre un ricco baratto di venti chili di veleno di api e bile di orso in cambio di impianti, staccammo il fax per non sprecare carta.

mercoledì 28 gennaio 2009

Una pugnalata emotiva


Goulimine è l'ultimo avamposto del sud marocchino dove sia consentito arrivare con i propri mezzi senza sconfinare in territorio Saharoui. Qui si svolge ogni domenica il più importante mercato di cammelli dell'Africa. Vi convergono a migliaia, touareg con i mantelli blu, Saharoui con grandi turbanti bianchi avvolti attorno al capo, commercianti marocchini con camioncini malandati e qualche turista di lungo corso che ama perdersi tra le mandrie e i sensali. Sembra di stare al mercato di Alba vestiti da carnevale. Stessi gesti, stesse pacche sulle spalle, stesse strette di mano, solo i cammelli hanno un'aria distaccata, superiore, ma loro sono gli unici esseri viventi a conoscere il centesimo nome di Hallah e quindi se la possono permettere. Giudiziosamente eravamo arrivati il giorno prima, rimanendo subito preda di un ragazzino che ci aveva convinti ad andare a parcheggiare il nostro camper nell'oasi della sua famiglia a qualche kilometro dal paese. Ne valeva la pena; sotto un gruppo di palme ci si poteva godere uno spettacolare tramonto sulle dune, prima dorate e poi rosse, infine nere, del grande erg occidentale. Tra le palme c'erano anche altri sbandati, tra i quali due ragazzi di Cuneo, entusiasti ed affascinati come noi del luogo. Calato il sole, il ragazzetto viene a chiamarci con aria complice e ci comunica che proprio fuori dall'oasi si è accampato da due giorni un cosiddetto uomo blu del deserto, un'ottima occasione per una serata un po' particolare. Facciamo comprare carne di cammello per gli spiedini e con i due cuneesi al seguito, veniamo ricevuti dal predone del deserto che ci accoglie, dopo aver controllato la carne, con la proverbiale ospitalità touareg. Era un uomo non giovane, ma di aspetto severo avvolto in larghe vesti indigo di un blu accecante, la testa completamente avvolta in un gigantesco cheche che copriva anche parte del volto la cui pelle scura era cotta dal sole e dalla sabbia del deserto. Se ne stava accoccolato nella sua grande tenda, su spessi tappeti, appoggiato a sacchi di mercanzia disposti in disordine dietro di lui. Veniva al mercato due volte all'anno per barattare sale con orzo, thé e altre cose preziose per chi come lui passava tanto tempo lontano dal mondo civile. Così tanto tempo e così lontano da rimanere stupito e sorpreso quando non spaventato da certa tecnologia, evidentemente a lui poco nota. Come non ricordare, tra un thé alla menta e i dolci datteri freschi, il suo sbattere gli occhi, meravigliato, quando il nostro cuneese usò il suo accendino per fare il fuoco sotto gli spiedini; come se lo rigirava tra le mani continuando a fare scattare la fiamma, come un bimbo con un gioco appena scoperto, lasciandolo poi da parte, strumento diabolico in cui è male, forse, riporre fiducia. Che dire poi, quando si ritrasse terrorizzato, perchè improvvidamente, incurante delle prescrizioni preventive della nostra piccola guida, estrassi la macchina fotografica, subito riposta; un evidente oggetto demoniaco. Dispensava inoltre frasi sagge, tradotteci in simultanea, come osservazioni sui meloni, dono di Hallah, dolci dentro ma ruvidi e brutti di fuori o sui datteri, dita di luce divina. Mentre la nostra cuneese guardava con espressione rapita il principe delle dune, salutammo la compagnia, e ce ne filammo a letto. L'alba sulle dune è veramente un dono imperdibile; le sfumature infinite che iniziano col rosa leggero, per passare poi rapidamete tutti i toni dell'ocra, ti riscaldano dentro e ti rassicurano. Ed ecco arrivare i nostri cuneesi, lei, entusiasta, ci mostra un pugnale antico col manico d'argentone cesellato, che l'uomo blu ha loro ceduto dopo molte insistenze. Era di suo nonno, ma la necessità di nutrire le sue bestie lo avevano convinto a cederlo. Il poveretto non conosceva il valore del danaro, ma era disposto solo al baratto ed il piccolo Mahmud li aveva aiutati, facedosi carico di cambiare i loro cento dollari con i dieci sacchi d'orzo di cui il pastore abbisognava. Gli occhi le brillavano ancora per l'emozione e li lasciammo per andare al mercato, ragione per cui eravamo venuti fin lì. Un luogo straordinario che ci riempì gli occhi dall'alba per lunghe ore fino a mezzodì quando, quasi terminate le contrattazioni, lo lasciammo ai pulmann di turisti che arrivavano da Agadir per perderci tra alcune bancarelle di souvenir. Una di queste era completamente ricoperta di pugnali identici a quello del nostro ospite, disponibili a un dollaro e cinquanta (da trattare). Ridacchiando, improvvidi scettici relativisti, ci dirigemmo verso un piccolo ristorante dove trovammo i nostri due amici, con un diavolo per capello. Avevano certamente visto la bancarella e truffati ma non domi, erano subito corsi alla locale stazione di polizia, dove avevano raccontato il fatto. Pare che i gendarmi un po' assonnati abbiano esclamato: - Ma 'sto Hussein non vuol proprio capirla, ne ha bidonati altri due!- e caricatili sulla jeep, li riportarono all'accampamento dove, dopo una ramanzina e con promessa di non farlo più, il nostro magnifico guitto, restituì il maltolto. Un sogno distrutto da una improvvida bancarella, sciolto nell'acido del buon senso e dello scetticismo. Cento dollari in più in tasca ed una emozione in polvere. Eppure l'anima si nutre di sogni; che pugnalata, che occasione perduta, che peccato!

martedì 27 gennaio 2009

Buon anno!



E buon anno a tutti i miei amici cinesi. Questo è l'anno del toro (o del bue secondo altri) e mi dicono che non è un grande anno. Vedremo comunque, i presupposti perchè sia un disastro già ci sono, ma ricordiamoci sempre che le previsioni degli economisti, quelli bravi soprattutto, sono sbagliate in più del 50% delle volte e in questo caso è bene. Comunque staremo a vedere e ingozziamoci di involtini primavera!

lunedì 26 gennaio 2009

Il lago Yamzho


I 4794 metri del passo di Kampa-la ti accolgono con una sgradevole sensazione di difficoltà respiratoria. Cali giù dalla Toyota e fatichi a camminare, a respirare, pensi che sei praticamente in cima al Monte Bianco e invece intorno a te le montagne crescono come i funghi. Guardi in alto e capisci perchè in tutte le tangke tibetane appese alle parete dei templi il cielo sia così indaco, sempre cosparso di sbuffi bianchi di nuvole. Camminando lentamente tra i fasci di bandiere di preghiera colorate che sventolano nel vento teso e gelido, portando in alto le loro richieste di aiuto, arrivi a vedere, poco più sotto la superficie piatta di turchese del lago Yamdrok Tso che si insinua tra le vallette laterali come un polipo dai cento tentacoli, un lago sacro nel deserto dell'alta quota. Sei in Tibet, ma se sei cinese il lago si chiama Yamzho Yumko e non è poi molto sacro, anzi, con il tipico pragmatismo cinese, si trova in una posizione straordinaria per fare una condotta forzata di oltre mille metri di dislivello che generi energia di cui il nostro mondo (sottolineo, il nostro) è perennemente affamato. I tibetani hanno guardato l'operazione con grande disapprovazione e si sono messi, metaforicamente, sulla riva del lago ad aspettare. Non ci sono immissari, quindi è prevedibile che la continua emunzione di acque farà scendere il livello del lago fino a farlo sparire e qui casca l'asino. Perchè i cinesi non lo sospettano o quanto meno se ne fregano, ma tutti sanno che in fondo al lago, da ere immemorabili è tenuta prigioniera e incatenata una orchessa malefica che, una volta liberata dal peso delle acque, spezzerà le sue catene dorate e distruggerà il mondo, quantomeno la Cina. Per questo forse, i tibetani che transitano dal passo con gli yak o le mandrie di capre, dopo aver messo una pietra sui monticelli lasciati dai viaggiatori che li hanno preceduti, guardano il lago e sogghignano a lungo, stringendo gli occhi come fessure scavate nella carne. Quelli a cui raccontano la storia ridono e li prendono un po' in giro. Ma i pastori non sono come i ragazzi impazienti che tirano pietre a Lhasa o bruciano qualche negozio e magari rischiano la vita. Raccontano a te, che ansimi camminando piano per raggiungere l'auto e che guardi un po' smagato i monaci col telefonino che si messaggiano durante la preghiera nel gompa di Sera, una frase famosa di Guru Rimpoche scritta in un rotolo di pergamena del XV secolo:- Quando l'uccello di ferro volerà ed i cavalli correranno sulle ruote, il popolo tibetano sarà sparso per il mondo.- e le fessure sorridono ammiccanti. Loro aspettano.


sabato 24 gennaio 2009

La città dell'alba

La Ambassador nera che avevamo affittato a Madras procedeva zigzagando tra le buche della strada a tratti coperta dall'acqua che fuoriusciva dai fossati, riempiti dalle abbondanti razioni di pioggia monsonica che le gonfie nuvole scure che riempivano il cielo ci rovesciavano addosso con gusto. Ramsigh guidava con attenzione quel pomeriggio, insolitamente silenzioso. Avevamo mangiato qualche paratha infuocato e una magra coscia di pollo tandoori a Pondicherry e mentre l'arancione della spezia ci cuoceva ancora il palato, avevamo manifestato l'interesse a vedere Auroville, la città dell'alba, la vicina comunità fondata da Aurobindo il celebre mistico indiano morto nel 1950 , dove i seguaci del guru e la Mère, la francese che aveva dato seguito all'eredità spirituale del maestro, avevano creato un' oasi di pace aperta a tutti coloro che credevano nell' amore universale secondo le direttive del santo. Avevamo letto di un piccolo paradiso dove uomini e donne di tutto il mondo vivevano di amore e tolleranza reciproca. Il nostro Ramsigh che, di solito, visto il nostro interesse per la cultura indiana, si profondeva in lunghe spiegazioni cercando di chiarire le nostre curiosità in ogni dettaglio, stranamente non parlò molto, mostrandosi più interessato alla guida. Arrivammo all' ashram verso le tre e colpiti dal senso di pace che pervadeva il luogo, cominciammo a girare liberamente nel villaggio che circondava il grande tempio della pace interreligiosa in costruzione. Una sfera gigantesca creata su uno dei chackra della terra che irradia amore universale e tolleranza verso gli uomini di ogni credo. Biondi europei, vestiti con sobrie tuniche o bianchi salwar kamiz all'indiana, si aggiravano con aria serena mentre bambini giocavano a piedi nudi nella granda piazza antistante al tempio, incuranti degli esasperanti concetti igienici che ci turbano la mente quando percorriamo le strade dell'Oriente. Girammo ancora un po', sempre accolti da sorrisi. Mentre siedevamo nel grande giardino, cercavamo di capire cosa c'è di così profondo che pervade ogni cosa in quei luoghi, che avvolge in un velo sottile la realtà ed i contrasti. E' facile lasciarsi andare, essere coinvolti da un messaggio che spinge con forza chi lo vuole percepire, ma a questo punto diventa difficilissimo strappare il velo di Maya delle apparenze, andare al di là della superficie, considerare quanto il nostro genetico desiderio di trascendente ci oscura o semplicemente minimizza. Guardare oltre, considerare che tra tutti quelli che ci circondavano, quelli biondi, puliti e con sguardo sereno erano tutti occidentali, mentre quelli con il badile in mano che sudavano sotto i 40 °C del luglio indiano erano tutti indigeni, anzi più era grande e pesante il fardello di mattoni che si portavano sulla tela di iuta che copriva loro il capo e più il colore della loro pelle era scuro. Il loro sguardo era un po' meno sereno degli altri, come quello del vecchio con una bimba in braccio, che ci seguì a lungo mentre la nostra Ambassador nera si allontanava, a sera, verso il tramonto di altre illusioni. Ramsigh guidava allegro, sogghignando.

venerdì 23 gennaio 2009

Niente di nuovo sotto la neve

I miei contatti nella city, tempio della finanza, i quali cercano di investigare i vari aspetti della crisi (al fine di produrne altra, ovviamente) mi segnalano quanto segue:

"Owners of capital will stimulate working class to buy more and more of expensive goods, houses and technology, pushing them to take more and more expensive credits, until their debt becomes unbearable. The unpaid debt will lead to bankruptcy of banks, which will have to be nationalized, and State will have to take the road which will eventually lead to communism."
Karl Marx, 1867

Dalla padella nella brace?
E se si trattasse di una bufala, o una mezza verità (ricordate) magari solo un po"aggiustata"?
E se poi non fosse mica fondamentale indagare se è una bufala?
Pensare che c'è chi se la prende col relativismo, l'unica vera filosofia che ci salverà!

giovedì 22 gennaio 2009

Quasi primavera

C'è il sole oggi, finalmente, quindi il tema di meditazione è:
1. E' facile governare la testa della gente.
2. Basta un attimo e di noi non rimane memoria
3. Bello è vivere in una terra che non ha bisogno di eroi
Come di consueto per condensare i tre punti in un unico discorso vado a pescare nei miei ricordi. Vjacheslav era ricco, molto ricco, eppure, in quel 1993 di grandi novità, era la prima volta che usciva dall'URSS e tutto gli sembrava bello e diverso, anche una cittadina spenta ed anonima come Alessandria. Era ansioso di raccontarsi, con l'entusiasmo di chi esce dal guscio e si guarda intorno avido di imparare, di provare, di conoscere. Veramente non era proprio la prima volta che lasciava la Russia. Mentre gli chiedevo se non avesse mai visto neppure qualche paese all'interno dell'area sovietica, il suo viso si rabbuiò mentre risaliva la scala degli anni. Certo, uno lo aveva visitato, molti anni prima. Era d'inverno, un inverno molto freddo, quello del 1968 e lui, che era ancora un ragazzo, trascorreva il Capodanno in una gelida tenda con i suoi commilitoni, accampati tra le colline, lontani dai centri abitati. Le razioni erano insolitamente abbondanti e di buona qualità da giorni e anche la vodka veniva distribuita senza troppa avarizia. Poi arrivò l'ordine e lui, addetto alla mitragliera, era nella colonna di carri blindati che entrarono a Praga. Era il gennaio del 1969 e tutti erano ben motivati, sapevano bene(da settimane glielo spiegava il commissario politico) che l'Occidente stava per invadere la Cecoslovachia e che i fratelli Cechi li avevano chiamati in aiuto, per proteggerli e difenderli dall'invasore. Era pronto, nel suo slancio giovanile, a combattere per loro, ma mentre il suo carro avanzava sferragliando lungo la grande Uliza Venceslao, comprese subito che c'era qualcosa di strano. Emergeva con quasi tutto il busto dall'oblò del suo tank e girandosi intorno vedeva la folla, la folla dei Praghesi, che non gli lanciava fiori e grida di benvenuto, ma soltanto insulti e grida di "tornatevene a casa". In russo. Quella gente per cui era pronto a combattere, gli mostrava i pugni con ira, oppure lo guardava soltanto con sguardo severo e triste, molte donne piangevano. Uno shock, un ribaltamento di valori. Piano, piano cominciò a capire, risalì alla cura con cui nei giorni precedenti erano stati evitati, addirittura proibiti i contatti con la popolazione. Le sue certezze si sgretolarono a poco a poco in quella acerba primavera, man mano che le richieste di spiegazioni erano aggirate od ignorate. Per sua fortuna non dovette mai sparare e non seppe mai neppure di Jan Palach e degli altri ragazzi. Però la sua verginità condiscendente fu perduta quel giorno e negli anni a venire, guardò sempre chi prendeva per oro le dichiarazioni ufficiali del regime, con l'occhio di chi ha visto. Oggi la maggior parte delle persone con meno di 40 anni che conosco, non sanno neppure chi sia Palach. In un attimo la memoria svanisce se non l'hai vissuta direttamente, specialmente nei luoghi dove i problemi sentiti come i più gravi sono la presenza dei Rom e gli sbarchi a Pantelleria.

mercoledì 21 gennaio 2009

Xué

C'è una gran discussione sulle copie e sulla moralità della cosa. Chi le guarda con disprezzo, se si tratta di copie cinesi, che lo farebbero solo in quanto incapaci di avere idee proprie, poi strizza l'occhio pensando alla creatività, se a farlo sono i napoletani. I copiati, le griffes, piangono disperati denunciando perdite colossali e portando in tribunale i copiatori (cinesi). Non è chiaro se, in maniera miope, ci credano davvero o se sia un atteggiamento di facciata. Strano che non si rendano conto di alcuni fatti fondamentali. 1. Se io avessi una griffe di pregio, sarei terrorizzato e sconvolto se nessuno mi copiasse le idee; sarebbe il peggior giudizio che il mercato potesse dare del mio lavoro. Una patente di totale disinteresse, una bocciatura completa. 2. Chi compra un falso, sa benissimo di farlo e non comprerebbe comunque l'originale, o perchè non gli interessa buttare soldi o perchè non li ha, ma in questo caso, non appena se lo potrà permettere lo comprerà. Quindi, o fidelizzo il cliente o comunque lo faccio veicolo pubblicitario gratuito del mio brand. Quindi non solo non c'è perdita, ma anzi c'è ritorno positivo. In ogni caso ricordo che nella lingua cinese, lo stesso ideogramma 学- Xué, significa -imitare, contraffare- e allo stesso tempo -imparare, apprendere, studiare-. In questa cultura non c'è vergogna o disonore nel copiare qualcosa, anzi è riconoscimento di superiorità ed apprezzamento. In ogni caso, a chi, con occhio malevolo, indica questa faccia della Cina per dipingerne l'inferiorità culturale, direi, caro amico, prega che costoro continuino a copiare, rimanendoci sempre indietro di un passo, perchè nel momento in cui cesseranno di farlo, allora sì che saranno dolori per tutti. E gli esempi di creatività cominciano a giungere anche da laggiù, anche se legati ancora alle culture che più ammirano e da cui pensano di trarre il meglio, come si evince dalla seguente foto colta dall'amico Daniele Daminelli a Causeway Bay, in Hong Kong.

martedì 20 gennaio 2009

Cronache di Surakhis - 6: L'insediamento

Era finalmente arrivato il giorno dell'insediamento. Dopo una dura battaglia senza esclusione di colpi, tutti gli avversari erano stati fisicamente eliminati ed il nuovo Imperatore delle galassie stava per prendere possesso del potere assoluto. Quell'elezione rappresentava una grande novità; per la prima volta, grazie ad un attento uso delle nuove tecniche telepatopsicologiche si era imposto un tripode palmato di Arrak, che aveva saputo conquistarsi, grazie al suo messaggio di novità, le simpatie e soprattutto i consensi telepatici all'eliminazione degli altri concorrenti. Era interessante la nuova modalità di elezione. I candidati effettuavano, in diretta su tutti gli olografi dell'universo, una serie di presentazioni del loro programma, interagendo telempaticamente con gli spettatori, che poi, al termine di ogni settimana decidevano chi eliminare. Il candidato perdente della settimana veniva vaporizzato in diretta tra le battute assolutamente political incorrect della conduttrice, la callipigia Irona de Vlad, ammiratissima per le sue sei abbondanti mammelle (ma se le rifaceva periodicamente e lo sapevano tutti) e il programma Le Elezioni era da sempre quello a più alto share. Paularius, che aveva fiutato l'andazzo, aveva lasciato il suo buen retiro di Voghera e si era precipitato su Surakhis con il primo trasporto disponibile. La miniera viaggiava a turni ridotti. Aveva dovuto restituire all'agenzia oltre la metà degli schiavi, che data la crisi erano stati quasi tutti eliminati, salvo le femmine che potevano sempre venir buone, così aveva potuto anche approfittare per liberarsi di quei rompiscatole di gialloidi del regno di mezzo che sembravano tanto lavoratori e poi passavano la maggior parte del tempo a bere thè di Mou e a giocare a Ma Jong. Convocò d'urgenza la Gilda dei minerari di cui era presidente a vita (era stato costretto ad eliminare Xykz di Altair regalandogli una poltrona con lo schienale farcito di stronzio radioattivo, ma quella mignatta non voleva assolutamente farsi da parte) prima che fosse troppo tardi. Il programma del nuovo imperatore Benedetto era pericoloso, in particolare la parte riguardante l' obbligo di cure mediche agli schiavi a carico dei padroni, una vera scemenza che avrebbe mandato in rovina tutti, considerando anche il fatto che uno schiavo, anche se nominalmente guarito, ha sempre un rendimento assai inferiore. Non parliamo poi del programma di smaltimenti compatibili delle scorie industriali che avrebbero mandato alle stelle i costi di tutte le attività. E pensare poi, che queste scorie, le radioattive in particolare, non coprivano neanche il 50% delle superfici utili di tutti i pianeti. Tra l'altro poi non è che 'ste radiazioni fossero poi così tremende, intanto prima di provocare degenerazioni mortali, potevano passare anni e con le dovute protezioni i pericoli erano molto ridotti. Paularius aveva investito molto nell'industria delle tute antiradiazioni e adesso anche quello gli andava contro. La Gilda avrebbe dovuto sviluppare una pesante attività di lobbing; in molti si erano già mossi e se avessero potuto inserire un paio di elementi nella nuova amministrazione, forse i colpi più gravi si sarebbero potuti parare; alla peggio, dall'interno avrebbero potuto percorrere la soluzione B.

lunedì 19 gennaio 2009

Ghiaccio relativo


E' difficile capire se ciò che ti lascia senza fiato è la superficie ghiacciata del lago Baijkal o i -30 °C che freezzano tutto quello che ti circonda. I quattro metri di ghiaccio su questo mare interno sconfinato, su cui passano i pesanti camion militari che attraversano il lago come su una comoda autostrada (solo invernale) per raggiungere la Burijatia, paiono il coperchio di un colossale congelatore da cui estrarre con calma i pesci che i pescatori tentano con esche improbabili, nei buchi della calotta nella penombra invernale. Ben coperti, eravamo ad un centinaio di kilometri a nord di Irkutsk passeggiando sul ghiaccio vivo ai bordi della superficie vetrosa verde-blu. Avevamo lasciato da poco l'Istituto Limnologico in cui il Glavnij Limnolog ci aveva illustrato un mirabolante progetto di estrazione dell'acqua dal fondo del lago a 1800 metri, per imbottigliare e vendere in tutto il mondo l'acqua purissima e antica di milioni di anni del Baijkal. Trascurando il fatto che più a nord vi è una presenza di giganteschi impianti per produrre alluminio, l'anziano scienziato era entusiasta dell'idea. Solo al termine del colloquio scoprimmo che il progetto non aveva alcuna copertura finanziaria; cercamo di spiegargli il senso della necessità di dilazionare la cosa e lo lasciammo con grandi saluti ed abbracci secondo l'uso sovietico. Così rimanemo un po' a godere degli ultimi pallidissimi raggi del giorno che stava lasciando spazio alla lunga notte polare, lungo la riva da cui a fatica si scorgeva la linea lontana della sponda opposta. Il dolore forte alla base della laringe, al termine di un lungo respiro, è il segno evidente che la temperatura è inferiore ai 30 °C e l'intorpidimento generale è un ulteriore stimolo a muoversi verso un luogo coperto. Il freddo era veramente intenso, non avevo mai provato una temperatura così bassa; sentivo tutti gli arti torpidi e la punta del naso e le guance, senza riparo, erano stranamente insensibili. Rattrappiti e infagottati nelle nostre dublionke, richiamammo quindi all'ordine Kolija che ci accompagnava, pregandolo di riportarci in un luogo più consono alla vita. Lui ci guardò con occhio perplesso e sbottò: - Eh, lo so, non fa più quel bel freddo sano di una volta. A gennaio si stava quasi sempre sotto i 45 °C, ma da quando hanno fatto la diga sull'Angarà, il clima è proprio cambiato e non si va quasi mai sotto i 30 °C; per forza che poi si prendono le influenze. Andiamo a farci una bottiglia di vodka!- Lasciammo il lago verso la dacia di Kolija, mentre calava la notte.

domenica 18 gennaio 2009

Continuando nel tentativo quanto mai difficile di comprendere qualcosa della mentalità e della cultura cinese attraverso la lingua, vediamo oggi questo interessante ideogramma composto da due caratteri semplici, quello inferiore, 女- nǚ , lo conosciamo ormai bene e significa donna, e viene usato moltissimo nella lingua cinese nella composizione di molteplici caratteri e parole. Ad esempio messo sotto al carattere "prendere" da luogo a 娶 - qǔ , che come è facile desumere significa sposare, prendere in moglie. Nel caso illustrato, dell'ideogramma "qī", donna viene messo al disotto del carattere che significa "scopa" per dare il significato inequivocabile della parola "moglie", la donna che ha quindi, l'avaro destino di rassettare la casa. Ahimè sento già la levata di scudi, da parte delle mie attente lettrici, ma consideriamo che, se la linguistica è sempre stato appannaggio maschile, questo spiega facilmente la considerazione forse facilona, forse solo augurale dei nostri bravi mandarini. La realtà, come in tutto il resto del mondo è poi sempre stata assai diversa, specialmente oggi, dove in Cina, l'altra metà del cielo ha forse più opportunità che nel resto dell'avanzato pianeta.

sabato 17 gennaio 2009

Astrazione o astrattismo?

Capire l'arte è difficile, capirla per un non specialista come me, lo è ancora di più. Così ieri mi sono avvicinato alla importante mostra di Vercelli su Pollock e l'espressionismo astratto col timore di cadere nei luoghi comuni che 'sta roba la faceva anche mia figlia all'asilo. Certo, l'aiuto di una guida coltissima è stato fondamentale, ma non si può negare che capire è difficile, è difficile, è difficile! Non si può negare sicuramente che l'action painting di Pollock (più che i campi di colore di Rothko) dia una potente sensazione di forza creativa, un senso duro di ribellione, di movimento on the road, ma quando esci, un po' di dubbio rimane. Una cosa è certa, che non è possibile in alcun modo commentare o cercare di capire tutti i movimenti artistici del novecento successivi all'impressionismo, se non si sono ben compresi tutti quelli che li precedono e che ne sono le necessarie matrici, senza le quali non avrebbero potuto essere concepiti ed a cui fanno riferimento. Rafforzato da questa certezza, in compagnia dei cari amici che ci hanno voluto con loro, abbiamo potuto meditare su questi concetti davanti ad un risotto all'armagnac con coscie di quaglia che ha risolto tutti i dubbi in proposito. Anche e soprattutto a questo servono gli amici. Per questo la nebbia del ritorno ci è stata lieve. Comunque, per completezza di astrazione vi aggiungo due disegni che mia figlia aveva fatto all'asilo (periodo dell'action painting e periodo dei campi di colore). Non nell'ordine giusto, tanto per confondervi un po', così senza malizia.



venerdì 16 gennaio 2009

Il Sardar Ray

Il bambino ci guardava in piedi senza dire nulla, davanti alla tenda dove avevamo trascorso la notte, mentre facevamo colazione. Dietro, gli ottomila metri dell'Annapurna e del suo guardiano minore l'Himachuli, ritagliavano nel cielo una skyline di purezza; le nuvole scorrevano veloci. Mentre i nostri portatori smontavano il campo e ci apprestavamo a ripartire verso la base della montagna, si avvicinò a noi, sotto il suo cappelluccio di pelle, mostrandoci in silenzio la gamba piagata e gonfia. Non avendo competenze, lasciammo alla madre gli antibiotici che avevamo con noi con le opportune spiegazioni che le diede il nostro sardar. Seguiti dal suo sguardo muto, cominciammo a camminare risalendo la cresta. Un grande senso di impotenza. Salivamo da quasi una settimana, avendo lasciato Pokhara e il suo lago azzurro e toccando lungo il sentiero piccoli agglomerati di casupole, Gorepani, Tatopani, Landrung, Gandrung, dove avevamo dormito da un Gurkha in pensione ancora vestito col maglione dell'esercito inglese ed il pugnale al fianco. Il nostro sardar, Khrishna, era un Ray dalla faccia segnata dal sole delle alte quote; un viso scuro, tagliato di rughe profonde che lo facevano assomigliare in modo curioso a Charles Bronson. La notte prima della partenza, mentre ci abituavamo al freddo della canadese, aveva fatto un ultima notte brava con i nostri portatori in qualche locanda vicina e tornando sulla canna della bicicletta di un amico, piuttosto rotondi entrambi di arrak, un torcibudella locale, erano caduti nel torrente, dalla spalletta di un ponticello. Aveva passato la notte nel vicino dispensario, per cui eravamo partiti un po' più tardi ritrovandocelo davanti con un braccio al collo e la testa fasciata, ma deciso a non mollare. A poco a poco, camminando, le botte erano rientrate e davanti al fuoco, alla sera, mentre man mano mangiavamo i polli che ci portavamo dietro vivi in una stia (ecco il motivo di quattro portatori e una guida per due soli clienti). Khrishna aveva ripreso a ridere, cantando le sue canzoni himalayane. Oh rato mato, sindru ko saato... Oh terra rossa portata a valle dal torrente... diceva una melodia in nepali suadente. Cantavano tutti con occhi sognanti, intensi pensando forse alle mogli al villaggio. Anche San Drog, il più malandato dei portatori che camminava a piedi nudi, senza neanche le ciabatte ritagliate dai pneumatici, come gli altri tre; quello a cui rifilavano sempre la gerla più pesante, quella con la cassa cucina, cantava con voce forte e potente e guardava sempre verso di me, accarezzando con occhio intenso il mio cappello di lana pesante ed i miei guanti. Che piedi straordinari aveva San Drog! Sembravano forniti di suola eppure apparivano così prensili quando calcavano con cura il terreno incerto. Tornati a valle, dopo una decina di giorni, ci abbracciammo forte, prima di vederli allontanare con le loro gerle sulla schiena e la fascia appoggiata alla fronte. Gli feci scivolare in tasca cappello e guanti e mentre si allontanava, i suoi occhi ridevano. Scrivemmo per molti anni al nostro sardar Ray; si è dato alla politica diventando il sindaco del suo distretto, oggi chissà. Camminare era molto più faticoso.

giovedì 15 gennaio 2009

Lepjoshke e montoni


Il barbaro destino umano è di aspettare con ansia quello che sta per arrivare, per poi lamentarsene appena giunge e passare al successivo step di attesa. Così questa gelida e piovigginosa mattinata rimanda ad una primavera ancora lontana, sognata come una panacea risolutrice. In un'altra primavera ancora da sbocciare, gli spogli alberi di Taskent esitavano a spingere linfa nelle gemme ancora esili di un marzo fresco e polveroso. Bisognava festeggiare però; l'impianto appena inaugurato in un fatiscente edificio richiedeva una consacrazione trimalcionica. Il nostro anfitrione pensò di evitare il classico banchetto ufficiale nella sala dell'Hotel e ci propose un localino tipico dove assaporare la esoticità di un ambiente ed una cucina tipicamente uzbeka. Ecco dunque una corsa nella polverosa periferia sovietica (chissà perchè gli autisti dovevano sempre andare a tutta birra come se fossimo perennemente in ritardo?) per poi entrare nel cortile di una vecchia casa, circondato da un portico un po' malandato. In parte orientale, in parte turchesco, in salsa sovietica, il banchetto uzbeko è intinto di tutte le caratteristiche dell'Asia centrale. Le insalate crude, soprattutto di cipolla e pomodoro ne sono base costante, ma il piatto forte, la vera rivelazione paradigmatica della gastronomia uzbeka, il costituente centrale che condiziona la festa, ciò per cui si sceglie un posto (come da noi il bollito alla piemontese o il bue grasso), è il plof. Il nome stesso è allusivo e onomatopeico e pareva che quello, fosse il luogo dove avremmo mangiato il miglior plof di tutto l'Uzbekistan. Al centro del cortile stava un grande calderone di ferro nero, simile alla pentolaccia in cui il druido mescola la pozione per Asterix e compagni. Qui, fin dal mattino viene prodotto un amalgama di verdure, abbondante cipolla, uva passa e parti grasse di montone in cui successivamente viene cotto il riso che si intride a poco a poco, assorbendo il grasso mentre le ossa rilasciano le loro collosità midollari. E' un piatto unico dai sapori forti dove il peperoncino abbondante gioca un ulteriore parte di dueteragonista. Un punto essenziale nella riuscita di un buon plof sta nel fatto che il pentolone non deve essere mai lavato, ma i sapori di tutti gli storici plof che lo hanno preceduto, concorrono ad arricchire quello che viene portato in tavola. La quantità di residuati escrementizi di topo che circondava il focolare e la nuvola di mosche che avvolgeva tutto e tutti, facevano parte integrante dell'ambiente e del suo colore, un'area da cui sono nate tutte le grandi pestilenze del millennio scorso, inclusa la peste bubbonica di manzoniana memoria, tutt'ora giustamente endemica in quei luoghi, ma non sembrava preoccupare nessuno. L'occhio spento di Gianni mi guidò verso le tavole che rosseggiavano di pomodori cipollosi, ornate dalle ciambelle di lepjoshke, il caratteristico e fragrante pane uzbeko che veniva dal forno in fondo al cortile, proprio davanti alle latrine, su cui fitte schiere di mosche si organizzavano prima di lanciare le loro falangi all'attacco delle mense. Il succo di mela ed il thè irrorò l'intero banchetto fino all'apoteosi finale dei famosi meloni uzbeki, che come sottolineava Rustam sono i più dolci del mondo e che tentarono di ricoprire con un velo vegetale l'intero pasto, avvolgendolo in un sudario cauterizzante. Vodka, brindisi finali e pridladjenije sulla imperitura amicizia italo-uzbeka e tutti a casa. Il giorno dopo tutti sul water fino a sera, mentre un Gianni febbricitante ma non domo, tentava di raccogliere i cocci della spedizione; una prova dura, da cui uscimmo comunque tutti vivi e più forti, anche se, sul momento non pareva possibile. La guerra batteriologica è stata inventata qui.

mercoledì 14 gennaio 2009

Patate olandesi



L'inverno continua impietoso, ma secondo natura. Ricordo quando trenta anni fa facevo poeticamente arrivare vagoni di patate dall'Olanda, terra di tulipani. Arrivavano in gennaio, gelavano regolarmente. Tutti gli anni. Dall'esperienza non si impara.

Per cui, oggi ancora un haiku di Issa Kobayashi.

Neve
Ero soltanto.
Ero.
Cadeva la neve.
Tada oreba
oru tote
yuki no furi ni keri.

lunedì 12 gennaio 2009

Orsi polari

Non ne posso più! Adesso mi sembra proprio che si sia toccato il fondo. Ogni certezza svanisce. Proprio io, che facevo del dubbio la mia religione, una cosa, almeno, la ponevo nella bacheca delle verità scolpite nel cristallo. I ghiacci si stavano ritirando drammaticamente. I pinguini Vigorsol lo testimoniavano anche ai più scettici (ma ormai non ce n'erano più) e contribuivano comunque ad arginare il problema con una loro soluzione originale. Il polo nord era solo nominale, la banchisa un lontano ricordo; clip di orsi bianchi alla deriva (probabilmente gli ultimi della specie ormai quasi estinta) erano seguiti da elicotteri voyeristi che ne spiavano la nuotata appesantita, con un deprofundis lacrimevole di una giovane giornalista (?) specializzata in notizie drammatiche. I documentari abbondavano di alci che per il gran caldo si tolgono la pelle contro le betulle, volpi che non diventano più bianche ma rosse di rabbia, foche in bikini ad abbronzarsi, gatti delle nevi con accessori da sabbia, husky canadesi con la lingua che tocca terra, mammuth che spuntano fuori quasi vivi dal permafrost siberiano diventato pappetta. Anche le navi rimpiangevano di non aver più iceberg contro cui andare a sbattere, mentre agli eskimesi venivano inviati aiuti sottoforma di canottiere caraibiche. Intere nazioni sommerse dalle acque, acquistavano terreni negli stati vicini per poter migrare legalmente i propri abitanti reietti, nei prossimi roventi decenni. Da qualche giorno, i giornali e quelli che li scrivono (ma ha senso chiamarli giornalisti) ci raccontano che è tutta una balla, che si sa bene da più di un anno, che la banchisa polare non è mai stata così estesa, che il suo spessore sta crescendo, che il numero degli orsi polari è in costante aumento (per cui sarà bene cominciare a pensare ad abbattimenti selettivi), addirittura è quasi certa una nuova (piccola, per fortuna; anche questo è certo) era glaciale. Ma questa gente (giornalisti mi pare una parola grossa) dove le prende le notizie? Perchè si dà retta a tutti quelli che aprono la bocca e danno fiato, oppure lo fanno perchè hanno interessi, devono vendere qualcosa o devono farsi votare o farsi ascoltare da qualcuno e ne fanno cassa di risonanza, dando per certe ipotesi prive di conferme reali. Poi la gente ci crede, dà per scontati gli assunti e vota o si comporta di conseguenza rinuncando a verificare, a controllare, a non dare per certo, a pensare. Adesso basta! Marocchino con Nutella. Ma sarà poi buona davvero?

domenica 11 gennaio 2009

Ismailovsky Park

Un'altra domenica di neve e gelo con il pallido sole che finge di scaldare i meno tredici di stamane. Che nostalgia, quelle domeniche di gennaio a Ismailovsky Park a Mosca. Stesso gelo sferzante, stesso sole malato, solo l'aria secca che non ti fa sentire il freddo ma ti fa prudere il naso e le guance. Mi alzavo presto per buttarmi nella Metro a godere ogni volta di qualche diversa stazione. Stupendi ambienti, testimoni di un'epoca dove al centro dell'impero si voleva dimostrare la ricchezza anche se non era necessaria. Dalla Komsomolskaija o dalla stupenda Arbatskaija, fino alla Teatralnaija e alla vicina Ploshad Revoluzy dove prendevo la linea blu per Ismailovo. Passava la severa e monumentale Electrostanzija e finalmente si usciva in mezzo a montagne di neve nei sobborghi segnati dalle Krushove, parallelepipedi squallidi e giallastri costruiti in tutta fretta e al risparmio nel dopo Stalin, per placare la fame di case dei moscoviti. Un lungo rettilineo stando attento a non scivolare sul ghaccio tra due ali di babuske che vendevano calze, pantofole, mutande, improbabili valenky o robaccia cinese e finalmente una collinetta in mezzo ad un parco sterminato dove sorgeva un enorme mercatino in cui si poteva trovare tutto quello che c'era di interessante in Russia. Una Disneyland dello scambio. Pagati dieci rubli di ingresso, cominciava subito la sfilata di bancarelle dove mi piaceva attardarmi a guardare, a cercare di chiacchierare, a penetrare un poco di quell'anima russa che permea ogni manifestazione di vita. Trascuravo il mercatino degli animali in basso, per risalire a poco a poco la collina in modo circolare, quasi una montagna del purgatorio che conduceva alla cima liberatoria. Montagne di suveniri aspettavano di essere scelti, valutati, contrattati. Scatolette di Palech finemente miniate, le belle ceramiche blu di Djiel che esigevano ogni volta un mio obolo, piatti e stoviglie di legno laccato rosso e giallo, bambole riccamente vestite, spille dipinte, ogni volta pretendevano un riscatto prima di lasciarmi libero. Nel giro superiore i banchi dell'ambra e di altre pietre, le vecchie curiosità di argento come quel bel portasigarette su cui ho scorto un'incisione struggente "Al mio piccolo gattino, 1917". Come non rimanere attoniti e commossi al pensiero di quella giovane contessa che aveva preparato il regalo perchè il suo bell'ufficiale la ricordasse in qualche lontana destinazione e poi la Rivoluzione che spazza via tutto e stabilisce nuovi ordini, nuove gerarchie. Le macchine fotografiche poi, prendevano molto della mia attenzione: i gioielli della tecnologia russa, Le Kiev maestose, le piccole Zorki copie della Leica, le Horizon curiose con il loro obiettivo rotante vicine ai molti oggetti vecchi, macchine da scrivere fine secolo o i militaria, berretti, binocoli, bussole, daghe. Uno spazio a parte prendevano i distintivi e le medaglie, una vera e propria mania sovietica, che anziani dal volto duro vendevano dopo averle portate appuntate sul petto con orgoglio per anni. Passavo poi almeno un'oretta nello spiazzo dei pittori. Un gran numero di persone esponevano le loro opere intorno ad un vasto spazio circolare e si attaccava bottone facilmente. Il freddo pungeva, ma mi stringevo bene la dublionka e mi calcavo attorno alle orecchie la shapka di volpe che naturalmente avevo acquistato lì la prima volta, nei banchi delle pelli. Poi ancora i bei servizi di cristallo (ulteriore lascito), infine tralasciando le mille altre cose arrivavo alla cima della collina, che serbavo per il finale, trattenendo il desiderio di correrci subito appena arrivato. Già dal basso della scalinata si potevano vedere i cento tappeti esposti su tralicci a far brillare i colori nel sole radente. Una saga rutilante di rossi cupi, di azzurri smaglianti, di gialli pallidi, di rosa antichi. I venditori, quasi tutti caucasici dalle scure pelli rugose, si appollaiavano dietro le cataste di tappeti per difendersi dal vento che sulla cima della collina era più forte. Tutte le tipologie della produzione russa erano esposte. Grandissimi Sumak pelosi, Khazak e Shirvan geometrici assieme a tutte le loro varianti caucasiche, Adler smaglianti, scuri Bukhara e Samarcanda coloratissimi. Una volta fui folgorato da un Chichi rosso fuoco strepitoso, ma il tizio non era certo appeso a un pero e voleva 5000 dollari, così non cominciai neppure la trattativa, ripiegando però su una curiosa sacca da sella Yomud che mi lenì la delusione. Poi con i miei pacchetti me ne tornavo lentamente all'uscita per lasciarmi andare al ventre della metro prima di tornare in albergo. La maggior parte della gente leggeva libri, sulla metro di Mosca. Sarà anche un popolo di ubriachi, ma che recita a memoria Pushkin e Majacovsky. Freddo intenso, saudade, nostàlghia da annegare con 100 grammi di Stalichnaija come diceva Eugenio. Vado a farmi un bicchierino di Amaro del Carabiniere che il papà di una mia carissima amica mi ha regalato a Natale. Na sdarovije.

sabato 10 gennaio 2009

I punti cardinali sono molto importanti nella lingua cinese. Bei-nord, Dong-est, Nan-sud, Xi-ovest, ricorrono continuamente nei toponimi, come Beijing (la capitale del Nord), Xi an (la pace dell'Ovest) Nan jing (la capitale del Sud), Shan dong ( a Est della montagna), He bei (a Nord del fiume). Nelle parole comuni sono poi frequentissimi, come in Xi gua (anguria- la cucubita dell'Ovest) , Dong fang (il nostro vento dell'Est, appunto).
La grafia dell' ideogramma Xī (Ovest) è particolarmente interessante e come al solito dà un'idea dell' inclinazione poetica della cultura cinese. Sembra infatti che il carattere raffiguri un nido con gli uccellini affamati, rivolti verso il sole che tramonta, che, pigolando, sono ansiosi di scorgere, nell' ultimo raggio di luce aranciata, una sagoma amica, l'arrivo della madre che porta loro il cibo. E' una cultura antica, ricca di questi spunti pittorici, che da oltre duemila anni, aveva compreso, secondo i precetti della medicina taoista, che non fa bene costringere i pantaloni alla vita con lacci troppo stretti, perchè in questo modo il Chi, la forza vitale che equilibra la salute del corpo, non viene lasciata libera di scorrere e fluire in modo naturale. Oggi tutti i cinesi che possono, si strizzano con le cinture di Pierre Cardin e quelli che non possono, bramano di farlo al più presto. Insisto, li stiamo fregando alla grande.

venerdì 9 gennaio 2009

Elogio dell'ignoranza

Sono sempre stato turbato dall'ignoranza, quella crassa, cattiva, arrogante, orgogliosa di sè stessa, che ti squadra ghignando per dirti che comunque è più furba di te. Quella che si innervosisce infastidita quando affiora la parola cultura e che di norma nasconde altri sentimenti assai peggiori; violenza, desiderio di sopraffazione dell'altro, egoismo totale. Ma c'è anche un'altra ignoranza, più gentile, timida e un po' schiva che quasi si schernisce con le guance ammantate di rossore, quasi vergognandosi della propria inadeguatezza. Un mio caro amico, formidabile poliglotta, aveva cominciato a studiare il russo negli anni settanta durante il servizio militare. Era alle trasmissioni; così metteva a frutto le interminabili nottate solitarie di guardia davanti al telegrafo muto concentrandosi sulle tortuosità della grammatica zarista. Era una notte buia e tempestosa (direbbe il grande scrittore) e, nella pace assoluta della caserma, il nostro era alle prese con lo scoglio di un terrificante elenco di verbi di moto, perfettivi ed imperfettivi. Le pagine davanti a lui, data l'ora tarda confondevano l'elegante grafia cirillica di cui le stanche cornee sfumavano i contorni, quando, dietro di lui, inatteso, un fruscio silenzioso ed inaspettato giunse a turbare la concentrazione. Una mano si posò dura sulla sua spalla, mentre sentiva, appuntati sulla nuca, due occhi grigi, inespressivi ed indagatori che si sporgevano ad esaminare il libro. In quegli anni, nell'ambiente militare, studiare il russo di soppiatto era un interesse alquanto sospetto, certamente una cosa strana i cui fini erano da approfondire. Si sentì gelare il sangue, annaspando alla ricerca di una spiegazione, ma prima dell'excusatio non petita, arrivò secca la domanda: "Ah! Cosa stai facendo?" Uno schiocco nel silenzio notturno. La gola gli bruciava, mentre cercava una risposta credibile ma neutra. Ne uscì una voce flebile e strozzata che gli grattava la gola. "Sto studiando..." Il graduato si sporse ancora in avanti, esaminando le pagine con attenzione; scorreva con calma l'elenco misterioso che dipanava le volute delle maiuscole cirilliche. Dopo qulche momento interminabile, scattò il giudizio, tranchant. "Bravo! Il greco è una lingua bellissima, l'ho studiato anch'io al liceo. Continua così." La pressione della mano si allentò e la presenza inquietante fu inghiottita dalle ombre della notte, da altri attenti controlli. Chissà, ci salverà l'ignoranza?

giovedì 8 gennaio 2009

Jullay

"Jullay, jullay" ci salutavano con le mani tese i bambini correndo dietro alla corriera sgangherata che, dopo aver superato un piccolo villaggio, arrancava sullo sterrato tra Leh e Manali. Al villaggio erano salite alcune donne con delle ceste di verdure da portare ad un mercato qualche kilometro più avanti. I vestiti di pelli avevano un odore forte di sporcizia antica; i Ladakhi non si lavano molto, un po' per il clima severo, un po' per inclinazione naturale, malignano i mussulmani che stanno più a valle in Kashmir. Stupende collane di coralli fossili al collo e sulla testa degli straordinari perak ricoperti di turchesi grezzi e portareliquie d'argento a coprire la massa di capelli impastati di grasso per proteggersi dai pidocchi. Sguardi sereni, forse pensando ai due o tre mariti che ciascuna aveva lasciato a casa a zappare il terreno ciottoloso e avaro dei 4000 metri. Nella società matriarcale del Ladakh, le donne praticano comunemente la poliandria e si dedicano al commercio dei prodotti. Avevamo lasciato alla nostra destra la confluenza dell'Indo con lo Zanskar, dove i flutti terrei e limacciosi del primo si mescolano con una linea netta con le grige acque del secondo e salivamo la stretta valle verso Hemis. Tra le brulle pareti a V, l'Indo aveva un corso precipitoso e mulinante che non fa prevedere le dimensioni che il grande fiume assumerà dopo essersi buttato nelle pianure pakistane a fertilizzare una delle culle della cultura umana. In un tratto più largo dove la corrente sembrava avere un po' di tregua, la corriera sterzò decisamente dalla carrareccia e con piglio deciso si gettò in un guado che sembrava avventuroso. Anche le nostre vicine odorose guardavano la corrente con occhio meno sereno, mentre l'acqua a poco a poco saliva lungo i fianchi del mezzo. Al centro del fiume l'acqua entrò all'interno bagnando gli zaini che avevamo lasciato sul pavimento. Alzammo i piedi sui sedili, poi pian piano uscimmo dal guado e guadagnammo l'altra sponda. Giunti al paese le donne se ne andarono verso il mercato con le gerle sulla schiena; noi, dopo aver visto il grande monastero di Hemis, Lonely Planet alla mano, cominciammo a salire per un sentiero lungo il fianco della montagna. Dopo i 4500 metri la salita è durissima e ci vollero più di tre ore per fare i tre o quattrocento mentri di dislivello che portavano ad una piccola gompa nascosta tra le rocce. Il paesaggio era abbagliante. Nel sole a picco del primo pomeriggio, dall'altro versante della valle, una parete ocra di roccia scistosa sembrava spaccata da un gigantesco colpo di sciabola, con gli strati geologici in diagonale in piena vista a formare una coda di rondine verticale di almeno mille metri, stagliata su di un cielo cobalto. L'aria era tersa e fine e calmato il respiro affannoso, entrammo nel piccolo tempio e ci sedemmo in un angolo ad ascoltare silenziosi le preghiere ritmate di quattro anziani monaci. Terminato l'ufficio, si ritirarono a meditare, mentre uno si avvicinò a noi salutandoci a mani giunte. Il contatto non era facile, ma intesi che stavano lì da anni ed un loro quinto compagno viveva in meditazione e digiuno, per sei mesi all'anno in una grotta cinquecento metri più in alto, che ci mostrò con serenità. Era molto vicino all'illuminazione. In queste condizioni e con l'aria molto rarefatta, si è portati a credere a tutto e la magia del luogo aiuta e convince. Chiesi se proprio non mangiava nulla per sei mesi; maledissi la mia miscredenza di occidentale legata alla corporeità e incapace di afferrare la trascendenza orientale, mentre il monaco mi guardava quasi con rimprovero ma con occhi buoni. "Durante il digiuno non si mangia - sottolineò la evidente tautologia - Una volta al giorno gli portiamo da bere qualche litro di thè." Guardai la ciotola di thè tibetano che ci aveva offerto, considerando la sua composizione costituita da circa il 30% di burro di yak emulsionato e cominciai a capire. Lasciammo la gompa non prima di aver lasciato un cospicuo mazzetto di rupie in cambio di una paginetta dipinta di un libro sacro che il monaco dagli occhi buoni teneva pronta nellle pieghe del saio rosso. Scendemmo a valle, mentre l'ultimo sole impastava il cielo dello stesso colore.

mercoledì 7 gennaio 2009

Il biliardo di Lermontov

Anche se in gennaio, il torrente Teberda scorreva impetuoso nella gola stretta che risaliva la valle verso Dombay. Uno spesso strato di neve copriva la strada e le betulle che venivano sostituite, man mano che salivamo, dalle conifere, erano cascate di brina scintillante mentre il giorno cedeva di colpo alla notte. Di tanto in tanto blocchi di ghiaccio vivo segnalavano le sorgenti che sporgevano dai fianchi della montagna. Così di notte arrivammo al paese deserto, una stazioncina di sport invernali abbandonata nella dissoluzione dell'URSS tra le alte cime del Nord Caucaso. Sembrava un paese fantasma sepolto dalla neve he aveva vissuto momenti gloriosi. Il nostro cliente si era preso un week end di valutazione sulla nostra offerta per una linea di imbottigliamento e aveva voluto offrirci un assaggio delle bellezze della sua terra. Eravamo ospitati, unici avventori, in un antico sanatorij che era stato luogo di riposo per Bresniev e per tutti gli altri capi della vecchia nomenclatura da Cernjenko ad Andropov e tra le grandi sale rivestite di legni profumati, si respirava l'aria di passato severo che incombeva anche dagli occhi fissi delle teste impagliate di ungulati dalle grandi corna che ci fissavano dalle pareti. Grazie ai titoli del nostro cliente, il personale ci accudì subito con grande deferenza, anche considerando che di italiani da quelle parti non se ne ricordavano e che il grande complesso era completamente a nostra disposizione. Fu quindi subito sacrificato un intero montone (opportunamente già surgelato) che fornì una ricca cena a base di sashliky polposi ben rosolati sul braciere. Vodka davanti all'enorme caminetto, crepitare di ceppi resinosi, un sapore di passato. Salimmo quindi nella sala del biliardo su cui aveva giocato anche Lermontov, il poeta morto giovanissimo in duello, come ci confermò Larissa, una cameriera rubiconda dalle guanciotte rosse e con gli occhi un po' tristi. Attorno a noi fantasmi di contesse pallide dagli occhi accesi e di ufficiali in divise perfette, spazzati via dalla rivoluzione incombente. Le palle d'avorio correvano sul panno verde delicatamente colpite con il tocco secco delle stecche antiche, lucide per l'uso. Il rumore sordo dell' avorio che finiva nelle buche aveva un tono definitivo ed in quella atmosfera magica, avevamo poche parole da dire. Si immaginavano storie, intrecci, eventi burrascosi, decisioni politiche, amori travolgenti passati attorno a quel biliardo e sollevati assieme alla polvere dal pavimento scricchiolante. Anche Stefania, che mi accompagnava, da sempre vicina ed appassionata alla cultura ed alla storia russa, era visibilmente colpita dall'ambiente e affascinata dai continui richiami al passato. La mia camera era bellissima, profumava di legno di bosco e dalla grande finestra senza tendine, ricamata di cristalli di ghiaccio, una luna piena velata illuminava debolmente il crinale che ci separava dall'Avkazia. Faticai ad addormentarmi. Il giorno successivo lo trascorremmo tra la neve del paesino deserto e dopo cena (bisognava pur finire il barano ormai scongelato, che ci fu propinato in tutte le salse, in brodo, stufato, arrosto, bollito) andammo nella banija, una piccola sauna con un bracere al centro su cui Andreij continuava a gettare mestoli di acqua, sviluppando uno sfrigolante vapore. La temperatura (come da regolare termometro sovietico validato da apposito GOST) superava i 95°C ; infatti Stefania, accampando scuse improbabili, si era data per malata, mentre noi avvolti da candidi asciugamani sudavamo copiosamente. Quando mi parve di essere pronto ad esalare l'anima a Lermontov e vedevo il fantasma di Bresniev che, pur con il baffo immobile aggrottava il cespuglioso sopracciglio, Andreij mi fece un cenno e aprì una piccola porticina nell'angolo della banija invitandomi a seguirlo. Mi trovai di colpo seminudo nell'inferno bianco degli alpini di Nikolaijevska, sferzato dalla tormenta, a piedi nudi nella neve in cui affondavo fino alle caviglie. Nell'ottundimento generale dei sensi mi parve di sentire un bruciore caldo alle piante dei piedi e nei punti dove mi colpivano le pallate di neve che Andreij scagliava contro senza pietà. Risposi debolmente tenedomi l'asciugamano male annodato, poi man mano mi resi conto che forse faceva freddo. Tornammo di corsa alla porticina, verso la salvezza; dalle gole un urlo beluino per riguadagnare il riparo. Il pavimento era bagnato e scivoloso; nell' impeto di rimettermi al coperto mi sentii mancare il terreno e caddi fragorosamente. Il rumore sordo della mia testa (assieme al resto più ricco di lardo protettivo, forse la mia salvezza) che impattava sul marmo fece tremare la dacia. Mi riportai a valle un consistente bernoccolo e forse irreparabili danni cerebrali che ancora oggi ottundono le mie capacità di pensiero.

martedì 6 gennaio 2009

Cronache di Surakhis 5. La fuga

Dopo molti giorni di assoluta meditazione tra le nevi ed il ghiaccio, interrotte solo dall'assunzione di materiali liquidi e solidi diversi per decine e decine di migliaia di calorie, le mie sinapsi mentali hanno potuto allargare il raggio di percezione metapsichica, ricevendo un contatto extrasensoriale da Surakhis che vi riporto.
La crisi sta scavando un solco profondo nell'economia galattica e Paularius è da settimane alla ricerca di una via di uscita, quantomeno difensiva in attesa di momenti migliori. Seduto nel salone di meditazione, sta cercando di concentrarsi sulle parole che sono uscite ieri da tutti gli olografi del pianeta per capire il messaggio nascosto tra le parole forti dell'imperatore dai riccioli d'oro. Da mesi, nell'impero è in corso una lotta sotterranea di potere tra Lui e la Gilda Giudicante che di tanto in tanto fa emergere i piccoli ma necessari sotterfugi per mantenere il potere. Gente misera, che non capisce che quando è necessario tutto deve essere concesso, senza cercare di mettere carburante scaduto nei serbatoi. Le protezioni agli scambi telepatici venivano spesso aggirate e quei bastardi divulgavano subito tutto, senza rendersi conto che anche le porcherie aumentavano la popolarità dell'Imperatore. Il popolo si identifica nel furbacchione che ottiene per vie traverse e ne ammira la perversione e riccioli d'oro fa innamorare le femmine, quando piega la bocca nel suo furbo sorriso. Un po' aiuta anche l'ossido di pirlite che da qualche anno ha aggiunto nell'acqua che fa distribuire gratuitamente dalle sue aziende idriche, ma questo pochi lo sanno ed in fondo l'acqua nazionalizzata è anche peggio. Però le Sue parole della scorsa settimana, risuonano nella testa di Paularius come un allarme cupo e premonitore. Ha detto chiaramente, issato sui suoi altissimi stivaletti, che se la ghenga degli Judicatores avesse rivelato ancora qualche sua intercettazione telepatica se ne sarebbe andato dalla galassia rifugiandosi su Andromeda e lasciando nella disperazione le schiere dei suoi devoti ammiratori. Queste dichiarazioni avevano lasciato basito il popolo al completo e mentre nelle aule della Chiesa Rigenerata, si lanciavano novene penitenziali per evitare il tragico abbandono, saliva sordo l'odio verso la Gilda. Ma a Paularius, che proprio fesso non era, ronzava in capo da qualche giorno un pensiero fisso. Ogni dodici ore, controllava l'andamento dei CDS, i credits default swaps sul debito pubblico di Surakhis, che stranamente avevano più che decuplicato il loro valore, nonostante il Gran Visir Twoseas tranquillizzasse tutti sulla assoluta sicurezza dell'investimento. A pensar male si fa peccato diceva il profeta, ma non è che l'Imperatore, vista l'impossibilità di risolvere la crisi, pensava di abbandonare la nave, lasciando andare tutto in malora in attesa, tra qualche anno (tanto Lui pensa di essere immortale, sottoponendosi alla tecnica RCP del rifacimento corporeo periodico) di tornare come salvatore dell'umanità, richiamato a gran voce anche dai pochissimi scettici? La situazione impone decisioni rapide. Paularius, accese lo schermo e in pochi minuti diede tutte le istruzioni per sistemare le posizioni. Liquidò tutte le esposizioni interbancarie, lasciando solo situazioni debitorie. Secondo gli insegnamenti antichi di Twoseas, cartolarizzò tutto il possibile e trasformò i vari assets in pietre preziose trasportabili. La miniera era già chiusa e tutte le proprietà immobili, le intestò fittiziamente al suo schiavo Woodhead che aveva mandato nelle foreste di Deneb IV da tempo. In poche ore, con quanto gli era strettamente necessario e i preziosi, aveva già lasciato il pianeta, dove i primi moti insanguinavano le strade. Due giorni di iperspazio ed era finalmente a Voghera, un piccolo borgo tra le nebbie dominato dalle casalinghe, il suo buen retiro su un pianeta periferico di cui la gente non ricordava neppure il nome. Di qui si poteva ricominciare.

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